Regia di Martin Scorsese vedi scheda film
Opera imponente, studiata e meditata, arricchita da inquadrature suggestive, scenari primordiali, natura spesso nemica, un’opera che conferma la statura di Martin Scorsese quale autore come pochi al mondo, che solo in quanto tale ha potuto trovare, pur con gran fatica, i finanziamenti necessari per girare un film così impegnativo.
Martin Scorsese torna dopo ben 29 anni (dopo il discusso ma rilevante L’ultima tentazione di Cristo) sull’argomento religioso con uno sguardo diverso e sicuramente molto meditato. Era infatti dalla proiezione a Roma di quel film che egli girava e rigirava tra le mani un libro di Shusaku Endo – appunto Silenzio, del 1966 – ricevuto dall’arcivescovo di New York e ci son voluti decenni per fargli maturare l’idea e lo script di questo film che dal punto di vista intellettuale e mistico rappresenta, se ciò è possibile, un ulteriore passo di maturazione dell’uomo chiamato Martin Scorsese. Perché solo un uomo che riflette a lungo per cercare di compenetrare e “penetrare” l’essenza religiosa del libro può cercare di realizzare, e non sicuramente e forse neanche appieno, un’opera che mostra esteticamente e nell’intimo il travaglio spirituale dei missionari gesuiti che affrontarono un’avventura così dura, così estenuante – dal punto di vista mentale e fisico – in una terra così ostile. E l’ostilità certamente non riguardava solo la difficoltà di arrivare con mezzi di fortuna sulle prime sponde occidentali del Giappone del XVII secolo ma anche e soprattutto l’inospitalità che le autorità politico-religiose di quella terra riservavano a quegli uomini così volenterosi e pieni di fede. E si sa che l’uomo coperto appena da un pezzo di stoffa, con un borsello contenente il minimo ma armato fino ai denti di fede incrollabile per il Cristo morto in croce ha sempre fatto paura agli uomini di potere, perché anche quei gesuiti riuscivano a smuovere i cuori e gli animi della povera gente, dei contadini impoveriti che si affidavano (e succede ancora oggi) alla Buona Parola per sperare in una vita almeno spirituale migliore di quella vissuta tra campi desolati e abitazioni fatiscenti.
Dunque la Fede. Il percorso di Rodrigues e Garupe, e prima del disperso Ferreira, sono cammini ardui, coraggiosi e se vogliamo temerari, ma di sicuro dettati dalla fede e quando un artista si muove nel suo campo, che può essere appunto il cinema, mosso dalla curiosità, dalle domande intime che si pone, dal bisogno interiore di avere risposte per trovare la strada e la pace (soprattutto quando si arriva ad una certa età) ripercorre quel cammino. Ciò che lo muove è la ricerca della verità che si spera arrivi come un tuono che rischiari la mente e il cielo soprastante, e in maniera inequivocabile: un segno, quindi. In Hoc Signo Vinces. Una risposta che però potrebbe non arrivare oppure non essere recepita, non saputa cogliere. E quindi il SILENZIO, il temuto spaventoso minaccioso spiazzante SILENZIO! E quando il silenzio diventa pesante, che volgarmente definiamo assordante, ci sentiamo perduti e soprattutto abbandonati: la persona che non risponde allo squillo della porta o del telefono, la domanda inascoltata al nostro partner, la spiegazione essenziale per risolvere una situazione difficile, la preghiera a Dio. Inizi, parti, arrivi pieno di fiducia e rimani fermo aspettando l’aiuto e l’ispirazione che ti dia coraggio e conforto. Martin Scorsese ha ancora, come afferma tutt’oggi, tante perplessità e questo cammino lo starà aiutando, mentre il suo maestoso film ci mostra come il giovane Rodrigues sia prima sicuro e fortificato dalla sua fede ma poi comincia a vacillare e cerca di ascoltare almeno dentro di sé la voce di Dio, che invece tarda così tanto che il suo mutismo è di per sé una risposta, una non-risposta fino a fargli cambiare atteggiamento. Ma siamo sicuri che Dio ci doveva rispondere? Non è che la risposta sia insita nella fede stessa? La fede non è forse cieca e sorda per definizione?
Scorsese ci ha abituati dai tanti anni di regia alla sua logorroicità narrativa: difficile trovare un suo film che abbia una durata al di sotto delle due ore, anzi i suoi maggiori successi superano abbondantemente questo minutaggio e anche in questa occasione si lascia andare ad una lunga, lenta e solenne narrazione, prendendosi tutto il tempo necessario affinché lo spettatore possa seguire passo dopo passo l’evoluzione e il percorso mentale-spirituale del missionario, che arriva in quel Giappone fortificato nella volontà di predicare la Parola, convertire il popolo e nello stesso tempo cercare padre Ferreira di cui si son perse le tracce, ma che poi, scosso dalle angoscianti esperienze, dalle torture fisiche e psicologiche, nel vedere i maltrattamenti subiti dai suoi fedeli, traballa e la sua sicurezza ne risente. Perfino quella fede che lo aveva sempre sostenuto. Fino all’estremo momento in cui ammette che “calpestare” il simbolo di Cristo in croce era in fondo giustificabile pur di salvarsi la vita. In pratica è il primo bastione delle sue convinzioni che cede: più i giapponesi lo puniscono nel corpo e nella mente, più viene (mal)trattato come prigioniero nel loro lager, più giustifica se stesso adeguandosi alle circostanze e adattandosi alla vita dei suoi aguzzini. È il momento dell’apostasia? “Io prego” dice sommessamente Rodrigues “ma sono sperduto. Alla mia preghiera risponde il silenzio…”
Due ore e tre quarti e non accorgersene. Difficilissimo che ciò accada guardando un film così impegnativo, ma succede. E succede perché in quei tanti minuti Scorsese ci costringe a riflettere durante la varie sequenze, durante gli interrogatori a cui viene sottoposto il missionario, durante i tanti primi piani, così espressivi del bravissimo Andrew Garfield, in cui notiamo il lento cambiamento, nonostante le sue numerose preghiere e le sue manifestazioni di fede. Scorsese ci costringe a riflettere perché ci fa immedesimare in quella tremenda sofferenza, in cui il Dio tanto declamato e atteso non fa arrivare alcun segno di conforto: il silenzio di Dio, non il silenzio assoluto, ma come preferisce definirlo il regista, il suono del silenzio. Ma con una poco velata accusa intrinseca verso gli occidentali che, come lo stesso regista ha dichiarato, “…pretendevano di portare la propria verità agli orientali, senza rispetto per la cultura e la religione di quei Paesi. Questo fu recepito come un’offesa e gli asiatici vollero spezzare quell’arroganza con le persecuzioni. Invece avrebbero dovuto influenzare quelle culture attraverso il comportamento, le azioni. Non tentando di imporsi.” Contemporaneamente l’autore newyorkese afferma, a proposito del conflitto tra la fedeltà alla propria fede e la salvezza di innocenti, “ Senza voler rivelare troppo mi son chiesto: il gesuita Rodrigues rifiuta tutto ciò in cui credeva? Rinuncia alla fede? O piuttosto è trasceso a un livello più alto e profondo di fede?” Ed infatti è questo l’interrogativo che ci poniamo alla fine della visione.
Opera imponente, studiata e meditata, arricchita da inquadrature suggestive, scenari primordiali, natura spesso nemica. Le musiche di Kathryn e Kim Allen Kluge – la nuova coppia di musicisti insieme nella vita e sugli spartiti del cinema – danno inoltre una forza adeguata alle immagini, forzando qui e là le note come fosse (anche perché sotto alcuni aspetti lo è) un film avventuroso, addolcendo a drammatizzando invece nei momenti giusti. Dunque un’opera che conferma la statura di Martin Scorsese quale autore come pochi al mondo, che solo in quanto tale ha potuto trovare, pur con gran fatica, i finanziamenti necessari per girare un film così impegnativo sul cui successo non tutti potevano scommettere. E si è affidato ad un giovane attore, Andrew Garfield, che possiamo ammirare nella sua più matura esperienza, compenetrato in un ruolo gravoso che lui restituisce con elevata qualità, direi quasi inaspettata. Film la cui prima visione non basta ad essere recepito in pieno, film che necessita di un attento secondo lungo sguardo. Grande regia per un grande film.
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