Regia di Martin Scorsese vedi scheda film
Talvolta, forse, non ci si rende conto di quanto la storia sia dentro la cronaca quotidiana. È spesso per colpa della miopia occidentale se la persecuzione delle persone di fede cristiana, imperante in molte zone del mondo anche lontane fra loro, non venga percepita come un problema che va al di là delle strumentalizzazioni politiche di chi non ha minimamente idea della reale entità del problema. Non troppo dissimile, in fondo, da quelle che vede vittime altre religioni, magari non conosciute né praticate da noi, barbaramente oppresse dal Califfato che sta terrorizzando la parte di mondo non organica al suo inquietante disegno. Lo stesso papa Francesco, il pontefice che piace anche a tanti non credenti, s’è spinto, col suo linguaggio spiccio da parroco di campagna, nel dire che «il mondo odia i cristiani per la stessa ragione per cui ha odiato Gesù, perché Lui ha portato la luce di Dio e il mondo preferisce le tenebre per nascondere le sue opere malvagie». Il papa, in realtà, sa tarare il peso delle sue parole semplici e sa che la questione non è nuova né indecifrabile.
Bergoglio, è noto, è un gesuita, come i protagonisti di Silence, il film che Martin Scorsese tentava di girare da oltre vent’anni ed ha finalmente realizzato in un momento ancor’oggi così critico. Questo per dire che la contemporaneità di un progetto non si misura nell’immediato ma in una prospettiva più ampia, in cui il presente trova la sua ragione d’esistere per come riesca a svincolarsi dalle contingenze momentanee e diventare racconto universale. Preoccupati per la sorte del loro mentore Ferreira, due padri gesuiti portoghesi partono per il Giappone, dove pare che il religioso abbia rinnegato il cristianesimo per salvarsi da una morte orrenda. Giunti lì, i due («un esercito di due persone» secondo il loro scettico superiore) scoprono le pene a cui sono condannati i cristiani che non cedono alle richieste di abiura da parte del potere, incarnato da uomini viscidi, ipocriti, crudeli. Tutto in Silence denuncia la sua necessità etica e il rifiuto dell’epica.
Il fatto che Scorsese abbia trascorso decenni nell’attesa di realizzarlo non rende completamente giustizia ad un film che, pur partendo da una dichiarata esigenza personale, viene da lontano. Nel tempo e nello spazio, per rintracciare in un’epoca remota, il Seicento, e in una terra, il Giappone, spesso ai nostri occhi ostaggio della sua immagine, le coordinate per penetrare un mistero inesauribile e stratificato: la potenza e i limiti della fede, il divario tra il significato e il significante dei simboli, lo scontro tra assoluto e relativo, l’incomunicabilità tra culture. Palude in cui è impossibile piantare il seme del cristianesimo, il Giappone arcaico di Scorsese è un’immagine affascinante e mai ammiccante (impeccabili la fotografia di Rodrigo Pieto e il décor della coppia Ferretti-Lo Schiavo) che annuncia costantemente ciò che le interne voci narranti riferiscono con intenti didascalici. Non è sbagliato citare il Mizoguchi della tragedia fantastico-morale I racconti della luna pallida d’agosto, un nume tutelare a cui Scorsese allude proprio per quella concisione metaforica che qui tiene conto dell’importanza dei cinque elementi (i cinque grandi), anche in negativo.
La terra delle cose solide (la fede) è anche infertile; l’acqua che refrigera il gesuita Andrew Garfield è anche quella che dà la morte ai cristiani; l’aria rappresenta una mobilità che ha anche i connotati della minaccia; il fuoco distrugge le vite per rivelare qualcosa d’incredibile nel finale; il vuoto, ovvero ciò che va al di là della vita, che è il vero tema del film. Infatti, sin dal suo titolo icastico, questo complesso e stratificato Silence ragiona sul perché si preghi e se si corra il rischio di pregare al niente: «cos’ho fatto per Cristo, cosa sto facendo per Cristo, cosa farò per Cristo». Il vuoto espresso dalla latitanza di un Dio che non parla se non nell’attimo di massima tensione, dal tormento di non essere all’altezza della propria missione, dalla richiesta perpetua di un segnale che può manifestarsi soltanto nell’assenza di parole.
La chiave di comprensione, più che in Garfield, così integerrimo nel suo furore, o nel defilato Adam Driver sta nel personaggio di Liam Neeson, padre Fereira, che ha scelto di non morire come una sorta di condanna, proprio perché spiega anche il destino del suo (ex) allievo (conta solo cosa si crede nel cuore). Ma anche nei personaggi giapponesi, forse troppo caratterizzati, ambigui quando non cinici, dal perfido e mellifluo Issey Ogata al servo ingannatore Yosuke Kubozuka. Approdo forse decisivo nel percorso del suo immenso autore (i due piani dall’alto sulle scale e in mare, l’antiretorica che gli impedisce di abbandonarsi al torture porn), una parabola cristologica sull’ambizione (la cristianizzazione), il tradimento (l’abiura) e il perdono (dei traditori e dei traditi) che racconta ancora una volta le incidenze di ossessione, tentazione, tormento ed impossibile palingenesi nel mondo scorsesiano.
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