Regia di Pablo Trapero vedi scheda film
Un film importante, da non perdere, sicuramente.
Ma il valore del film sta tutto nel contenuto (i fatti raccontati che sono reali) e non nella confezione (il modo di narrarli, che determina il valore artistico al film).
Mi spiego meglio.
Sconcerta e spaventa, spiazza e atterrisce il vedere con quanta cinica indifferenza una famiglia “perbene” accetta il benessere che deriva dai sequestri di persona, lasciandosi fagocitare in una spirale di ipocrisia che consente a tutti di vedere e non vedere, fiancheggiare senza sporcarsi la mani, seppellire la coscienza, coprire le urla di terrore dei sequestrati con il volume dello stereo.
Ma il regista, facendo sponda sul fatto che la vicenda narrata è forte in sé, non si spreca più di tanto:
la sceneggiatura ha alcune incongruenze che disturbano la linearità logica della narrazione (gli argentini capiranno forse tutto, ma noi europei avremmo gradito maggior accuratezza nei passaggi);
l’approfondimento psicologico dei personaggi è scarso (i vari comprimari sono visti “da fuori” e si presentano come dei baccalà senza emozioni: si veda, per esempio, l’atonia sconcertante della madre, che – senza batter ciglio – intercambia il ruolo di mamma affettuosa, insegnante diligente e vivandiera del sequestrato);
il montaggio “americanizza” eccessivamente;
la musica idem (ma chi la cura trova un alibi nel fatto che quella era la musica che imperversava negli anni ’80);
anche la fotografia è vintage.
Sempre parlando di fotografia, ho notato che il film alterna scene luminose (vita normale) e scene cupe (risvolti violenti) con un compiacimento esagerato (e scolastico) per il gioco simbolico del chiaro e dello scuro.
L’apice del metaforismo (insopportabile) viene raggiunto però con la scena in cui si vede il cinico sequestratore e assassino che scopa il marciapiede davanti all’uscio di casa. Il regista, temendo che l'allusione passi inosservata (c'è sempre qualche spettatore distratto), la ripropone TRE VOLTE.
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