Regia di Pablo Trapero vedi scheda film
Durante gli ultimi anni della dittatura militare, una rispettata famiglia argentina organizza sequestri milionari, con la compiacenza delle autorità e contando sulla fama del primogenito rugbista. A capo del clan c’è un patriarca icastico dagli occhi costantemente sbarrati, incapace di perdere la calma e divoratore di figli. Più che sul gruppo in sé, il film è innanzitutto la catabasi di un conflitto tra padre e figlio, un lento gioco al massacro del gelido e, a suo modo, premuroso genitore ai danni del sottomesso e, a poco a poco, rancoroso rampollo. Non è semplicemente uno scontro generazionale ma un mancato discorso amoroso tra un uomo non in grado di concepire un mondo al di là del proprio (chiusura: lo Stato, la famiglia, la religione) e un ragazzo alle prese con la scoperta di un mondo altro rispetto al proprio (apertura: la Svezia, l’amore, il mare suggerito dal negozio di surf).
Eppure Il clan è qualcosa di più del tentativo di emancipazione filiale: è una parabola sulla violenza, certo, ma è anche la violenza di una parabola sull’impossibilità di uccidere il padre. Sul perturbante nel quotidiano e sul quotidiano perturbante di una messinscena che sa restituire il clima asfissiante di un regime fondato, va da sé, sul silenzio imposto alle vittime. Pur seguendo le dinamiche domestiche con carrelli ora lenti ora analitici, Pablo Trapero sa trasmettere una tensione allucinante, cavalca adagio senza perdere un momento il controllo della situazione, intuisce che la notte della democrazia non ha bisogno di luci tenebrose – se non nei pochi, determinanti esterni notturni comunque pieni da focolai – ma del bagliore opaco dei tinelli in cui accade l’indicibile.
Anche il repertorio musicale non intende solo restituire un’epoca: è il musical nascosto dentro il noir, la quota di finzione che Trapero sa che deve pagare al cinema per non rendere Il clan un ordinario biopic di facile ricostruzione visiva. E tuttavia riesce pure a non relegarsi al genere perché opera all’interno dell’ingloriosa storia nazionale con la lucidità e il dolore che spesso soltanto il cinema sudamericano sa (ri)maneggiare con folgorante sapienza. Certo, è un film “classico” nonostante il notevole montaggio non lineare, con i pezzi che si ricompongono e gli attori in stato di grazia, su tutti Guillermo Francella di serafica potenza luciferina. E se è vero che un conto è una storia vera e un altro è una vera storia, Il clan è una vera storia tratta da una storia vera (sì, è un’incredibile storia vera).
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