Regia di Laszlo Nemes vedi scheda film
Primo Levi ne I sommersi e i salvati riferisce il caso di una ragazza sopravvissuta miracolosamente alla gassazione e le reazioni dei membri del Sonderkommando: “La nascondono, la riscaldano, le portano brodo di carne, la interrogano [...]. Non ha capito, ma ha visto; perciò deve morire, e gli uomini della Squadra lo sanno, così come sanno di dover morire essi stessi e per la stessa ragione. Ma questi schiavi abbrutiti dall’alcool e dalla strage quotidiana sono trasformati; davanti a loro non c’è più la massa anonima, il fiume di gente spaventata, attonita, che scende dai vagoni: c’è una persona”. È il soggetto di questo film: di fronte alla singola morte di un bambino Saul ritrova la propria umanità smarrita nell’agghiacciante routine quotidiana fra camere a gas e forni crematori, si ostina a cercare un rabbino che dia degna sepoltura al cadavere e addirittura dimentica di svolgere il compito che i compagni gli avevano affidato per contribuire al loro disperato tentativo di ribellione; il tutto per riaffermare la necessità della pietas, ossia per una di quelle questioni di principio che ad Auschwitz costituivano un lusso impensabile. Una storia breve (si svolge nel giro di poche ore), convulsa, caotica, raccontata senza nessun compiacimento estetico: la macchina da presa è incollata ai volti, intorno ci sono urla, spari, fumo, la visione è sfocata e la morte è solo un rumore di fondo.
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