Regia di Laszlo Nemes vedi scheda film
Un sorriso si schiude lentamente provocando una lieve increspatura sulle gote sporche ed emaciate; Saul non sorride da molto tempo e un moto dell'anima gli illumina le iridi ormai opache. Un movimento naturale della bocca, in tempi normali, che assume significati molteplici in un'epoca in cui il riso abbonda solo sulla bocca dei malvagi. Ma quale significato attribuire a questo sorriso? La dolorosa consapevolezza della fine? La meraviglia per un volto biondo di bambino che apre alla speranza verso un futuro nuovo? La soddisfazione per un ultimo, benché incompleto, gesto di umanità? Nemes ci lascia un mucchio di domande senza risposta e racconta l'Olocausto in modo poco convenzionale. Ce lo raffigura dal punto di vista di un ebreo ungherese, Saul, che lavora nelle Sonderkommandos. Unità speciali formate di soli ebrei di cui Primo Levi parla con orrore ne "I sommersi ed i salvati". Un punto di vista, quello di Saul, che si potrebbe dire privilegiato se non fosse per gli orrori che si consumano dentro i Krematorium. Saul e tutti gli altri che appartengono alle unità devono spingere i condannati nelle camere a gas, rovistare nelle tasche dei vestiti ormai inutili, ripulire dal sangue e dagli escrementi la stanza della morte, accatastare i cadaveri nel montacarichi ed, infine, svolgere i compiti necessari affinché la catena dei forni non si inceppi. Un lavoro orribile che, tuttavia, garantisce qualche mese di vita in più rispetto agli altri condannati. Quando si entra in quel luogo si è infatti sicuri di sopravvivere finché le S.S. non decidano di sterminare l'unità, ormai, depositaria di "segreti" che non possono uscire dal campo. La guerra è virtualmente persa ed i prigionieri non sono più necessari. La soluzione finale procede sempre più spedita e chi arriva non fa a tempo a scendere dal treno che già si trova nelle docce di decontaminazione a base di zyklon o dentro una fossa comune con un buco nella nuca. Il lager è un ginepraio di cadaveri ed i membri del Sonderkomando sanno che la propria fine è vicina perciò cercano di organizzare una fuga. Saul, però, è più preoccupato a cercare un rabbino e dare un'impossibile sepoltura ad un ragazzino, che a partecipare al piano di fuga.
Ho letto qualcosa sull'organizzazione del campo di sterminio di Birkenau ed in base a ciò ho potuto constatare la perizia con cui il regista ungherese ricostruisce il lager dando particolare attenzione alla logistica e alla caotica ma precisa organizzazione del lavoro all'interno del Krematorium, come all'esterno di esso. Oltre alla perigliosa ricostruzione, il film si fa notare per alcune precise scelte stilistiche. Nemes lavora sulla profondità di campo optando per una marcata sfocatura dietro il soggetto in piano. In questo modo l'attenzione dello spettatore si concentra sul protagonista e le sue azioni rendendo meno cruda la rappresentazione della morte nella forma dei cadaveri spesso ripresi dietro il piano d'azione. Una scelta che, a mio avviso, va oltre la pudicizia nei confronti delle vittime e che tuttavia ha i suoi elementi di negatività. Se lo spettatore, in qualche modo, viene "protetto" dall'orrore, dall'altro l'esposizione visiva alla nefandezza nazista avrebbe fatto vibrare corde emotive di maggiore intensità. Nemes preferisce, invece, accostarsi al soggetto con un taglio più documentaristico utilizzando un formato di ripresa più consono ai tempi ed effetti cromatici che si allontanano dalla bellezza formale di Schindler's List che fa della fotografia patinata un aspetto fondamentale della propria ossatura espressiva. La conseguenza è un'esperienza emotiva più distaccata ed una maggior attenzione alla ricostruzione storica che comprende il racconto del tentativo di rivolta. Il realismo è accentuato dalla babele linguistica, dalla confusione di rumori, dal clangore degli strumenti, dalle grida dei condannati, dagli ordini impartiti e dall'isolamento sociale di ciascun protagonista della vicenda. A Nemes va riconosciuto il coraggio di battere nuovi sentieri nella rappresentazione dell'Olocausto e di rinunciare alla spettacolarizzazione che gli avrebbe garantito ben altre platee. Al contrario, mette in luce la "banalità del male" e sintetizzata efficacemente il pensiero di Hanna Arandt che ben si adatta alle figurine tedesche quanto ai membri stessi delle unità speciali che finiscono per diventare numeri la cui moralità è piegata all'istinto (umano) di sopravvivenza e all'ideologia nazista. Concludendo Nemes ci lascia in eredità un film complesso, difficilmente catalogabile, non privo di punti oscuri e sinceramente spiazzante che merita ulteriori visioni per dipanare i dubbi e le perplessità che mi riesce difficile spiegare. È indubbio invece il talento registico dell'autore di cui si sentirà parlare alla prossima Mostra del Cinema di Venezia.
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