Regia di Laszlo Nemes vedi scheda film
Saul sa di morire ad Auschwitz, si sente chiamato ad una missione per risorgere. Il film di Nemez chiede di non voltare lo sguardo davanti alla barbarie dell'assolutismo, nella solitudine della coscienza. "Amici? I tuoi amici? Se chiudi loro insieme in una stanza senza cibo per una settimana..allora tu vedi cosa è amici!" (Maus, Art Spiegelman)
E’ ancora possibile rappresentare qualcosa che si allontani dai meccanismi di ricostruzione che i fatti reali e l’insindacabilità storica hanno prodotto riguardo ad un accadimento così devastante come l’olocausto? Qualcosa che non sia mera ripetizione degli atti conosciuti, che non sia solo un doveroso percorso obbligato entro il quale concentrare la vittimizzazione rischiando di ridurre la catastrofe dell’umanità in una distanza di sicurezza, in una presa visione storica dalla quale proteggersi con tutto lo sdegno possibile? Vedendo Il figlio di Saul, la risposta può essere affermativa, ma se il film è il risultato di alcuni mesi di riprese, è soprattutto il frutto di una elaborazione interiore e di una sedimentazione visiva che hanno richiesto un tempo molto più lungo. Per stessa ammissione del regista, l’esordiente Laszlo Nemes , una fonte di documentazione fondamentale del suo lavoro è dovuta a Shoah (1985) documentario colossale di nove ore di Claude Lanzmann sullo sterminio degli ebrei. Internato ad Auschwitz, Saul fa parte di quei deportati che i nazisti impiegano per ripulire le camere a gas dai corpi asfissiati e raccogliere le ceneri dai forni crematori. Destinati ad avere vita breve perché non possa esistere alcuna prova testimoniale, verranno eliminati dopo alcuni mesi dal loro impiego, il nome di questo gruppo di persone è Sonderkommando. L’individuazione di questa figura di “transizione” già emersa dalle testimonianze dei sopravvissuti nel documentario di Lanzmann, pone le basi per mettere il pubblico in una scomoda posizione, poiché se anche Saul è indubbiamente una vittima, la mdp costringe a guardare con i suoi occhi la realtà deforme circoscrivendola alla sua condizione particolare tesa unicamente alla sopravvivenza del momento ed escludendo quella ritualizzazione della tragedia umana dal punto di vista visivo e sottraendone i passaggi “spettacolari” più canonici. Ne consegue un registro claustrofobico e opprimente in cui il caos è invisibile ma molto vicino a chi guarda, lo si avverte dai rumori e dalle sfocature dell’immagine, dal disagio interiore che la presenza ansimante e disperata di Saul trasmette, eliminando di colpo tutte le cautele descrittive che altri film hanno prodotto in precedenza adoperando registri diversi, per cercare di rendere più spiegabile ciò che successe. Nemes mostra ciò che nessuno aveva mai mostrato senza neanche farlo vedere e questo è un merito straordinario del film. Da una camera a gas Saul estrae il corpo di un ragazzino ancora in vita per pochi istanti. Non sapremo mai se in lui riconosce il proprio figlio, ma l’uomo farà di tutto affinché venga seppellito accompagnato dal rito religioso. Il corpo diventa quello esanime della storia dell’uomo, e Saul il predestinato per donargli un segno di salvezza e di speranza. Il corpo del figlio morto è la sostanza del film, è la natura stessa dell’irrappresentabilità, assume un valore simbolico molteplice diventando il punto focale della vicenda. Dalla restituzione della dignità al corpo sopravvissuto per poco all’inferno, alla prova che neanche la brutalità più turpe ha il potere dell’onnipotenza e della dimenticanza, dal riconoscimento di un corpo la cui esistenza non può essere cancellata, alla lacerazione del dolore di un padre che vuole proteggere le sue stesse sembianze umane. Come era prima lo sfondo a raccontare più per suoni e ombre la catastrofe, adesso è l’immobilità del corpo avvolto da un sudicio sudario a parlare direttamente allo spettatore, di qualcosa che inversamente proporzionale al tempo che passa ci riguarda sempre più da vicino.
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