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Il figlio di Saul

Regia di Laszlo Nemes vedi scheda film

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Questo testo contiene anticipazioni sulla trama.

La recensione su Il figlio di Saul

di ed wood
8 stelle

Esordire con un film sull'Olocausto non è uno scherzo. L'argomento è dei più importanti, poichè riguarda la massima manifestazione del male nella Storia. Ed è sempre un problema il modo di porsi di fronte ad un argomento così (giustamente) "inflazionato" da suscitare irresponsabili atteggiamenti di snobismo e minimizzazione (non solo da parte dei negazionisti tout-court, ma anche di intellettuali progressisti che vorrebbero mettere l'esperienza nazista sullo stesso piano di qualsiasi altra aberrazione del Potere, rifiutandosi di comprendere le peculiari componenti di lucida follia, persecuzione razziale, sterminio pianificato, anti-umanesimo, delirio pseudo-scientifico e altre abiezioni che hanno reso unico al mondo il regime di Hitler). 

 
Fatta questa premessa, l'opera prima di Nemes convince per la capacità di porsi in modo originale di fronte alla faccenda, senza però per questo evadere dal nocciolo della questione. Al centro dell'immagine c'è sempre il protagonista, Saul, ebreo complice del massacro, mentre l'orrore rimane su quelle poche chiazze di sfondo (sfocato) che l'inquadratura in primo piano concede. Ma quella ridotta porzione di immagine è più che sufficiente a farci intuire e vivere lo strazio, tanto più che questo è potenziato da una traccia audio che mette i brividi: le urla dei deportati sovrapposte a quelle dei kapo, i colpi di fucile, le percosse compongono un documento sonoro della mattanza che è tanto più sconvolgente quanto più "fuori campo", quanto più slegato dalla controparte figurativa. In sostanza, "Il figlio di Saul" è quello che si dice "un pugno nello stomaco", un film che non ci risparmia nulla dell'inferno dei forni crematori e che quindi compie il suo dovere morale di onorare la memoria delle vittime, ma ha soprattutto il pregio di fare tutto questo senza cadere nelle retoriche più corrive.
 
Certo, la scelta di incollare la mdp al volto e alla nuca del protagonista non è nuova: dai primi Dardenne a Mungiu, fino al Garrone di "Reality", per fare qualche esempio, è una tecnica piuttosto diffusa nel cinema d'autore contemporaneo. Tuttavia raramente è stata utilizzata in modo così radicale e teorico come nel "Figlio di Saul". Ingannevolmente, si potrebbe pensare che il film sia tutto in semi-soggettiva. In realtà è l'esatto contrario: nè noi nè tanto meno il protagonista siamo focalizzati su ciò che accade intorno. Saul è fondamentalmente un individuo isolato mentalmente dal contesto circostante, un cinico, uno che non vuole guardare in faccia l'orrore che lo circonda, fino a quando la vista del cadavere di un bambino non fa scattare in lui un'illusione che lo porta finalmente a trovare un valore (astratto, immaginario) grazie a cui ritrovare un barlume di pietas: il sentimento paterno verso un figlio che (con ogni probabilità) non esiste se non nella fantasia di Saul.
 
Questo umanesimo residuale, incrollabile, questa fiammella di sentimento che nessun lager potrà mai spegnere del tutto assume però connotazioni ambigue. L'ossessione di Saul per questo presunto figlio e il suo desiderio di dargli una degna e religiosa sepoltura lo porta a compiere una serie di gesti avventati che causano la morte di almeno due colleghi e che rischiano di far saltare i piani di evasione degli altri membri del Sonderkommando. "Stai barattando le nostre vite per quella di un morto" gli viene rinfacciato. Se svariati film sull'Olocausto, da "Schindler's List" al "Pianista" parlano di fuga, di salvezza, di istinto di sopravvivenza, "Il figlio di Saul" ha per protagonista un personaggio che non tiene alla propria sopravvivenza, essendo oramai sconnesso dalla realtà e schiavo della propria ossessione (una situazione che peraltro ricorda un po' quella della protagonista di uno dei film più enigmatici dei succitati Dardenne, che si inventava una gravidanza nel "Il matrimonio di Lorna"). C'è qualcosa di tragicamente ridicolo nell'ostinata ricerca di un rabbino da parte di Saul, qualcosa che evoca la figura classica dell'ebreo errante e che si riallaccia alle visioni, di tono nettamente più ilare, dei Coen di "Serious Man". E' come se la vittima-carnefice Saul non potesse rispondere alla burocrazia macellaia dei gerarchi nazisti se non con una ulteriore fissazione burocratica e ritualistica (la sepoltura con tutti i sacri crismi della dottrina ebraica, anche a costo di causare la morte propria e dei propri compagni): fino a che punto si può rispettare la scelta di Saul?
 
Il film ha forza e intensità per tutta la durata e alcune sequenze, come l'incipit in cui le sagome sfuggenti dei deportati sfilano di fronte al volto indifferente di Saul (con un espressivo effetto-scia) o la lunga scena del rogo notturno, vantano una tensione costante. Molto intrigante anche il finale, che pare per un attimo risolversi in un momento onirico: in realtà si rivela l'ennesima supposizione di Saul, il parto definitivo della sua mente dissociata. Tuttavia la rigidità della scelta stilistica si paga talvolta a livello narrativo, con la confusione che offusca alcuni snodi del piano d'evasione, specialmente nella parte finale. Certi personaggi e situazioni restano poco sviluppati (la figura femminile, la canzonatura del gerarca, i dettagli dell'ammutinamento); inoltre sarebbe stato forse opportuno offrire un ritratto più complesso di Saul, del suo vissuto, per permettere letture più complesse riguardo alla sua ambizione paterna. Ma considerando che si tratta di un'opera prima, non si poteva chiedere di più. 
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