Regia di M. Night Shyamalan vedi scheda film
Nel tentativo di risollevare una carriera mestamente alla deriva, M. Night Shyamalan s'abbandona, lascivo, alla soluzione di tutti i mali: in POV we (he) trust(s). L'anima venduta alla casa del diavolo (Blumhouse), la strategia multitwist messa da parte in favore di un (ridicolo) coup de théâtre, una storiella come tante che come tante scivola via senza lasciare traccia, una tematica ("la paura dei vecchi") come pretesto, espedientucoli e topoi cari al (de)genere, un fiorir di videocamere che filmano-registrano-archiviano l'imprescindibile documento: The Visit è una visita nel pozzo dei pensieri shyamalanici (all'attuale, paludoso, stato delle cose).
Depista - o meglio: riempie - il fu autore, mentre snocciola psicologie spicciole (i traumi per la partenza del padre anni prima, i problemi della madre, e degli stessi protagonisti: lui misofobo, lei non si guarda mai allo specchio), mentre casca sui più classici meccanismi horror (i ragazzini, Rebecca e Tyler, so' belli e svegli ma si comportano come stupidi patentati), mentre appiccica basica ironia posticcia e sbertuccia scenette tutt'al più "normali" (l'inseguimento tra i cunicoli sotto casa) e si sollazza nell'imbastire quadretti "inquietanti", mentre fa "scorrere" interminabili minuti e fiumi di parole (e laghi di noia: d'altronde, non succede niente fino all'ultimo quarto d'ora).
Non una singola sequenza/inquadratura degna di essere ricordata (né guardata, invero), zero tensione e spaventi (eccetto, come detto, l'attesissima conclusione), appiattite tenuta e gestione spaziotemporale; eppure, il regista di The Village sa benissimo dove piazzare la mdp. E lo fa vedere, rivelando così l'artificio (la simulazione delle riprese in teoria "dilettantesche") ed in definitiva l'inautenticità del documento.
Poco importa, parrebbe (tanto quanto il fatuo raccontino), giacché il valore del testo è puramente "teorico": la ragazzina (palese tronfia emanazione shyamalanica sul campo) blatera fiera di regia, inquadrature, messa a fuoco, contrappunti musicali e di mise en scène. Sempre la stessa fornisce intenti («odio i film fintamente melensi») e poetica («io sono per un cinema etico») mentre qualcuno tira in ballo la "tensione visuale" e qualcun altro cita Cecil B. DeMille: lo sguardo oltrepassa personaggi, storia, mezzo, pubblico per farsi forma e lezione (del demiurgo).
Un'altra dichiarazione - «il grande finale del mio film» - prelude alla più insulse delle "rivelazioni". Ovvero l'invasione degli ultracorpi. Fuggiti dall'ospedale psichiatrico, e stabilitisi permanentemente nella casa dei nonni (il turbinio d'idiote domande così recita: nessuno se ne accorge? La mamma non aveva dato ai due figlioletti nessuna foto? La medesima non aveva chiamato poco prima o subito dopo? È normale mandare la già traumatizzata prole in una casa di estranei, dato che non erano in contatto da quindici anni? ecc.).
Fa niente: il giochino prende quota con i suoi sacrosanti contrappassi (a Tyler il nonnino spiaccica in faccia il pannolone impregnato di tumida sostanza fecale; Rebecca è "costretta" a specchiarsi per affrontare la schizzata nonnina), si dà un tono con le schizzate di ritmo e si fa bello (che ordinario) all'inevitabile resa dei conti.
Finché accumulo di finali fa scadere ogni ambizione teorica e pretesa "autoriale": alla frettolosa banale risoluzione di cui sopra seguono dapprima il momento catartico (musica rassicurante, luci della polizia, pioggia e abbraccio materno lavano via l'insania, la sporcizia e il vecchiume che avevano investito i fratelli), poi l'intervista alla mamma che finalmente "svela" gli eventi occorsi quando era scappata via di casa, infine (infine) la postilla d'allegrezza con l'ennesima performance rap di Tyler (per inciso: l'attore che lo interpreta non è per nulla credibile): ok, il (falso) nonno non aveva tutti i torti ...
Occorrerebbe, probabilmente, al buon M. Night Shyamalan, una visita nella casa delle (grandi) pause ...
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