Regia di Jacques Audiard vedi scheda film
Sivadhasian (Jesuthasan Antonytasan) è un combattente delle Tigri del Tamil. Dopo la morte della sua famiglia decide di fuggire dalla guerra civile che divampa nello Sri Lanka e trovare rifugio in Europa. Per facilitare la fuga prende con se una giovane donna e una bambina. I tre partiranno insieme verso la Francia e prenderanno l’identità di una famiglia morta nove mesi prima : Dheepan il marito di 35 anni, Yalini (Kaliaeswari Srinivasan) la moglie 26 anni e Illayan (Claudine Vinasithamby) la figlia di 9 anni. Arrivati a destinazione dopo un lungo e duro viaggio, a Dheepan viene affidato un lavoro come custode in un quartiere multietnico alla periferia di Parigi. Yalini, invece, trova un lavoro come badante a casa dell’anziano padre di Brahim (Vincent Rorriers), il caporione appena uscito dal carcere. I tre si conoscono a malapena, ma hanno in comune la voglia di cominciare una nuova vita e, magari, trasformarsi in una vera famiglia. Soprattutto Dheepan vuole lasciarsi alle spalle la tragedia della guerra civile. Ma in Francia, nel paese che lo ha ospitato e offerto un lavoro, si trova nel bel mezzo di una guerra tra bande per il predominio territoriale del traffico di droga. La paura di morire ritorna e pur di difendere quanto di bello sta nascendo con Yalini, è disposto a far riemergere l’anima guerriera che è in lui.
“Dheepan-Una nuova vita” (premiato a Cannes con la Palma d’oro) del regista francese Jacques Audiard è un film sul desiderio di fuggire dalla guerra e sulla voglia di ricominciare altrove. Imparando a comunicare con una lingua tutta da scoprire e con dei sentimenti da rinnovare. Nel cinema di Jacques Audiard è sempre una questione di comunicazione a rendere problematico l’incontro tra le persone e difficile l’instaurarsi di rapporti umanizzanti. Così come è sempre una sorta di metalinguaggio a fungere da calmiere di stati d’animo che facilmente vanno in escandescenza, ad avvicinare ciò che è lontano, a far incontrare in un terreno neutro stati emotivi diversissimi. Metalinguaggio che può scaturire da fattori diversi, materiali o immateriali, da un’attitudine mentale o da una menomazione del corpo, dalla conoscenza di tutte le lingue del mondo o dall’ignoranza dell’unica che servirebbe per sopravvivere. E che si nutre di segni da codificare, di sentimenti da svelare poco per volta, di corpi che desiderano farsi toccare. Ne scaturisce un universo emotivo in cui, dalle incomprensioni iniziali segue sempre una complicità muta, dai difetti di comunicazione un linguaggio che sa parlare con il vocabolario degli occhi. Un mondo che conserva sottotraccia una matrice noir, che assomma dolcezza tenuta a freno e rabbia repressa, voglia di ricominciare e violenza che agisce per scatti improvvisi. Così è sempre nei film del regista francese (esclusi i primi due che non conosco). Così è “Sulle mie labbra”, dove la capacità di Carla di saper leggere il labiale delle persone anche da distanze notevoli, fa avvicinare il suo mondo di segretaria ingrigita con quello del seducente Paul Angeli, un ladro in attesa del colpo risolutore. Così prosegue in “Tutti i battiti del cuore”, dove il giovane Tom, in bilico tra l’educazione raffinata impressagli dalla madre pianista e l’educazione della strada trasmessagli dal padre “traffichino”, trova una zona franca nell’amore per la musica e nel comune linguaggio che attraverso il piano può instaurare con la bella insegnante cinese. Così è ancora con “Il Profeta”, dove la capacità di Malik di saper parlare più lingue gli consente, non solo di sopravvivere, ma anche di salire nella scala gerarchica in quel prototipo in scala minore della società multietnica francese che è il carcere. Così è infine in “Un sapore di ruggine e ossa”, dove la menomazione fisica di Stephanie trova una complicità emotiva necessaria nell’amorevole e disinteressato altruismo di Ali.
Questa cornice poetica è presente anche in “Dheepan”, dove la barriera linguistica che si frappone tra i protagonisti cingalesi e il quartiere dove vanno ad abitare rappresenta l’elemento sufficiente per innescare tra le reciproche forme di isolamento sociale un rapporto tutt’altro che pacificato. Quello di Audiard è un cinema di corpi che si muovono alla ricerca di un proprio equilibrio, in questo caso, i tre cingalesi si spostano da una parte all’altra del mondo per ritrovarsi a vivere sempre in prossimità della paura di morire, sempre rinchiusi in un mondo che imprigiona dei corpi vogliosi di evasione. “Ma non è la stessa cosa”, ripete spesso Dheepan riferendosi al fatto che la repressione sistematica attuata dal governo del suo paese contro la minoranza Tamil è cosa ben diversa tra la guerra tra bande per il dominio del traffico della droga. La qualità della violenza è certamente diversa, ma di fronte alla minaccia di morire in terra francese, il guerriero Tamil si vede costretto a rivedere i connotati della sua presenza nel quartiere, a marcare il confine entro il quale le cose da salvaguardare prima di ogni cosa, insieme alla vita, è il sentimento sincero che sta nascendo tra lui e Yalini. La sequenza in cui Dheepan traccia col gesso una linea di confine che i “cattivi” non devono in alcun modo oltrepassare, vuole simbolicamente segnare una relazione funzionale tra la guerra che non smette di inseguirlo, i contrasti multietnici che degenerano spesso in improvvise escalation di violenza e la difesa di un sentimento amoroso che sta maturando per contrasto proprio sullo sfondo di un mondo che ai due protagonisti appare capace di comunicare solo con le armi. A mio avviso, è proprio questo mettere in relazione più cose contemporaneamente a rappresentare un limite del film, che se da un lato può avere il pregio di giocare simultaneamente su più registri narrativi, dall’altro lato fa emergere il difetto di non risolverne nessuno in maniera compiuta. Se nei film precedenti Jacques Audiard si era dimostrato molto bravo nel rendere centrale l’evoluzione dei sentimenti attraverso la correlazione funzionale tra la voglia di comunicare nonostante tutto e l’irrazionale imprevedibilità della psiche umana, qui il tutto mi appare appesantito da troppi elementi che non si risolvono efficacemente e che neanche si armonizzano linearmente tra di loro. La messinscena mi sembra procedere per scatti, intervallata qua e la da qualche inserto “visionario” (comunque ben congegnato) che tende a legare l’esperienza guerriera di Dheepan con il sopraggiungere del pericolo nel suo nuovo incarico di custode. Detto altrimenti, se l’intenzione di Audiard era quella di porre l’accento sulla relazione tra la matrice violenta insita nel genere umano e l’evoluzione sentimentale dell’uomo e della donna, la messinscena non raggiunge felicemente lo scopo perché privata di quella coerenza di forma e di stile che ha bisogno dell’adeguata caratterizzazione d’ambiente per potersi giustificare appieno. Certe situazioni mi sembrano obiettivamente forzate (come la sequenza dell’incontro con il colonnello dell’esercito del Tamil, per esempio, totalmente gratuita e slegata dal contesto narrativo a mio avviso ), così come non adeguatamente caratterizzati mi sono apparsi certi personaggi (come Illayan, l’unica che si integra imparando la lingua, ma anche tutto il milieu criminale). Il finale poi, in perfetto stile “Taxi Driver” (come già è stato notato da più parti) , con l’acme della violenza che sfuma in un’atmosfera fiabesca, totalmente irricevibile se voleva essere la “degna” chiusura di una storia d’amore maturata in tempo di guerra.
In definitiva, “Dheepan-Una nuova vita” mi è sembrato un film non riuscito del tutto, soprattutto se confrontato con gli standard qualitativi a cui ci ha abituato il bravo Jacques Audiard. Nonostante il premio sulla croisette attribuitogli dalla giuria presieduta dai miei amati Fratelli Coen, è un film che ho visto con interesse ma che non mi ha entusiasmato.
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