Regia di Jacques Audiard vedi scheda film
Tesi: Jacques Audiard è il regista europeo più in forma da diverse stagioni a questa parte. Corollario: anche quando non è al massimo - come i grandi campioni - è capace di fare la differenza in un festival (Dheepan è la Palma d’oro 2015). Perché non parlare di un autore come si parla dei talenti delle coppe internazionali? Guardate come racconta in una manciata di secondi la storia di un capo delle tigri tamil costretto a fuggire dallo Sri Lanka con passaporti falsi insieme a una ventenne e una ragazza di nove anni che fingono di essere sua moglie e sua figlia. Gli basta mostrare un traduttore che lo aiuta facendo il doppio gioco in un commissariato per poi gettarli tutti in una banlieue che nella notte diventa la giungla dei signori della droga. Dheepan, è il nome del personaggio principale, diventa guardiano e tuttofare di uno degli stabili presidiati dalle gang di trafficanti. In un film italiano saremmo ancora all’aeroporto. Tre disperati, estranei l’uno all’altro, in fuga da un inferno domestico. Ma più della migrazione, Audiard mette a fuoco la sorda complessità delle persone che ne sono travolte: il protagonista (impersonato da uno scrittore che ha davvero militato nelle tigri fino all’età di 19 anni) è il più cupo e introverso (scopriamo che ha già perso una sua famiglia), la finta moglie è troppo giovane per fare la parte della madre coraggio, la bambina, la più svelta a integrarsi, è la più distante. È anche un film su cosa sia davvero una famiglia. Va da sé che se si mette una tigre tamil nello stesso territorio di criminali di periferia, qualcosa di pericoloso succede. Ma stavolta Audiard contrae tutto nel finale in una resa dei conti rituale e stilizzata. A differenza di Il profeta o Sulle mie labbra o anche Un sapore di ruggine e ossa, la violenza è meno importante della prossimità della camera, del silenzioso scavo individuale e degli sguardi negli sguardi dei personaggi (molto belle le scene, ricche di amarezza e pericolo, in cui la protagonista adulta fa conoscenza del boss locale di cui assiste il padre). Le luci (dense e piene di riverberi, di una donna: Éponine Momenceau) e la musica (un’ambientazione elettronica fatta di suggestioni e tenerezza, di Nicolas Jaar), rendono tutto avvolgente e solido, pieno di tepore, dolore ed empatia. Anche l’happy ending un po’ fiabesco.
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