Regia di Arnaud Desplechin vedi scheda film
Cosa rimane, nel tempo, di una storia d’amore? Cosa rimane di se stessi? E’ proprio su questo che sembra interrogarsi Paul Dédalus (e con lui Arnaud Desplechin) mentre tenta di capire che cos’è che ha determinato il suo frustrante bisogno di cercare con una ostinazione caparbia e disperata, un troppo prolungato, solitario e volontario esilio.
Che bel film. Ci vuole un po’ per entrarci e orientarsi. Ma quando ci sei dentro non sai che fare se non ammirarlo. Quando ci sei dentro puoi solo lasciarti andare, seguire la corrente, farti portare dove è giusto andare. (Bruno Fornara)
IL FILM
Definito da Edouard Waintrop (direttore della Quinzaine des realizateurs) “il film più bello e commovente di Desplechin”, Trois souvenirs de ma jeunesse (titolo internazionale My Golden Years che ne snatura abbasta il senso)è un’indagine (con molte interessanti variazioni) sulla fragilità delle suggestioni emotive e sentimentali e sulle difficoltà di comprendersi ed amarsi. Un viaggio alla ricerca di se stessi, in costante bilico fra passato e presente, nostalgia e melanconia che parla di occasioni perdute, di cocenti fallimenti e di possibili “rinascite” dentro a un metaforico percorso a ostacoli tutt’altro che lineare (labirintico lo si potrebbe definire con le sue innumerevoli svolte e le biforcazioni, gli avvitamenti, gli incroci e gli improvvisi soprassalti) davvero molto seducente e pieno di riferimenti letterari, oltre che di qualche ascendenza resnaisiana (il discorso sul tempo e il suo ondivago trascorrere con tutti i suoi infiniti ritorni resuscitati dalle reminiscenze mnemoniche che fanno riemergere in ordine rigorosamente sparso, i ricordi rimasti per troppo tempo seppelliti nello scrigno della mente).
Tre età di una vita trascorsa e ormai lontana che riemergono nel presente per rimettere tutto in discussione, tre momenti della giovinezza di Paul Dédalus (il nostro protagonista) antropologo apolide che da troppo tempo ha perso il contatto con le sue radici e che fra ripensamenti, rimorsi e incertezze, si trova improvvisamente costretto a confrontarsi con la difficile e problematica (ri)costruzione di un’identità certa che ha smarrito per strada durante il cammino abbastanza accidentato della sua esistenza.
Un racconto che Desplechin con il suo inconfondibile sguardo appassionato e scientifico, umanista e antropologico allo stesso tempo e un trattamento molto affascinante e personale della storia, mette in scena con stupefacente vivacità e freschezza (ma anche con molta discrezione) grazie anche a una cinepresa che sembra voler danzare intorno alla vorticosa vita di Paul con un’andatura ritmata e suadente che corre e rallenta, si ferma e riparte in perfetta sintonia con i momenti “piani “ o “concitati”, le pause e le sequenze “clou” della vicenda, rimanendo però pudicamente sempre a debita distanza dai suoi personaggi per renderli così apparentemente liberi da ogni condizionamento programmatico e formale e non soffocarne la spontaneità che un’invadenza troppo insistita avrebbe potuto compromettere.
Vero e proprio romanzo di formazione, è dunque un film che rivisita l’infanzia e la prima giovinezza di Paul, già personaggio principale del precedente Comment je me suis disputé… (ma vie sexuelle) del 1996 (e poi ripreso anche in Racconto di Natale del 2008) che già ci aveva detto molte cose sulla sua figura, e in tutti e tre interpretato da uno straordinario Mathieu Amalric (che qui dà davvero il meglio di sé e che potremmo definire a questo punto l’attore feticcio del regista).
Paul Dédalus come Antoine Doinel e Mathieu Amalric come Jean-Pierre Léaud dunque? Perché è indubbio che Desplechin con questo film intenso e drammatico dallo stile maturo e una buona dose di romantica sensibilità priva di inutile nostalgia ma piena di passione e di (ri)conoscenza cinefila , intenda rendere anche un sentito omaggio alla ineguagliata modalità di fare cinema tipica di Truffaut (e questo a partire dal problema del “doppio” sul quale ritornerò più avanti).
Insomma, comunque sia o stiano le cose, quel che è certo è che con questa pellicola (anche se ormai siamo nell’epoca del digitale, io preferisco continuare a usare questo termine un poco anacronistico) il regista - che si conferma uno dei più interessanti Autori francesi della generazione di mezzo – dà prova di una raggiunta, invidiabile maturità stilistica. Di fatto, non è mai stato così preciso né così specifico nel declinare la propria poetica come questa volta. Si potrebbe dunque dire che Trois souvenirs de ma jeunesse è stata l’occasione giusta che gli ha consentito di dare un eccellente e definitivo saggio del suo singolare talento visivo e narrativo: oltre al passato e al presente, qui riesce a mischiare con maestria e perizia pure autobiografia e finzione, thriller e romanticismo, recuperando persino l’espediente del racconto epistolare che costituiva l’ossatura portante di Comment je me suis disputé… (ma vie sexuelle) e non sarebbe stato facile se non avesse avuto tutte queste doti, raggiungere con tanta carne al fuoco, un risultato così positivo e amalgamato.
Una commistione ardita che Desplechin è stato in grado di coordinare e dominare con assoluta precisione anche formale e che gli ha permesso di aggiornare uno stile già molto personale per rileggere (e reinterpretare) tutti i topos del suo cinema proiettandoli però di fatto in una nuova prospettiva di visione (che comunque non rinnega niente del passato) inedita ma al tempo stesso inconfondibile, che per una ragione o per un’altra, rimanda (ma in forma tutt’altro che ripetitiva) a tutte le sue precedenti fatiche, a partire proprio da “La sentinelle”, sua folgorante opera d’esordio.
L’obbiettivo, che è poi quello di restituire al suo protagonista d’elezione un passato fatto di infanzia e di una tutt’altro che spensierata giovinezza ma ancora aperta alla speranza, è dunque pienamente centrato (e la novità sta tutta dentro alla sorprendente, empatica, tortuosa struttura che circoscrive e contiene l’intero racconto in cui i ricordi riemersi riescono a riprendere lentamente forma in occasione del rientro di Paul a Parigi dal Tadjikistan, paese in cui ha vissuto alcuni anni). Un duplice viaggio – geografico e nella memoria – il suo, e dove il primo, devastante, dolorosissimo ricordo che riaffiora è tutto riferito alla sua infanzia, si concentra sul complesso rapporto con una madre affetta da una schizofrenia che la porterà al prematuro suicidio. Il tutto però incastonato all’interno di una vischiosa ragnatela di immagini correlate, che miscelano questa tragedia con i frequenti spostamenti (anche a ritroso) e le numerose fughe (in nome omen?[1]) che singolarmente hanno contrappuntato l’ esistenza del nostro protagonista fin da quando, ancora bambino, aveva preso la decisione (inconsueta e coraggiosa per uno della sua età) di abbandonare la propria casa natia allontanandosi così dagli affetti più cari per andare a vivere con la nonna, o quando - già adolescente - durante una gita scolastica in Russia, regalerà la propria identità e il suo passaporto a un coetaneo ebreo che vuole rifugiarsi in Israele e finirà poi per morire in Australia (il tema del “doppio” a cui accennavo prima appunto) che genererà poi il contrappeso della bellissima, basilare sequenza in cui nel ritornare a Parigi appunto, viene bloccato all’aeroporto da un professionale poliziotto di frontiera (ben reso da un André Dussolier in perfetta forma) e trasferito in una stanza verdastra e sotterranea che sembra provenire da un film di spionaggio girato ai tempi della guerra fredda, tanto risulta ambigua e rarefatta l’atmosfera che vi si respira dentro, per essere interrogato sulla sua identità. Gli viene infatti chiesto perentoriamente chi in effetti sia, dal momento che a loro risulta che un altro Paul Dédalus con le sue stesse generalità, sia da poco venuto a mancare, e Paul non sa rispondere se non con uno smarrito e sconfortato “io non lo so più chi sono” (e dal suo sguardo possiamo anche comprendere che forse e per davvero non lo ha mai saputo con certezza).
Viaggi e fughe che si ripresenteranno ciclicamente e più volte, segnando tutta la sua vita formativa, come quando si trasferirà in città per studiare, “fuggendo” dalla provincia della sua precedente infanzia, per riparare poi però con la forza potente dell’immaginazione, nei più lontani esotici paesi così seducenti con le loro incognite “attrattive”, utilizzando le confuse suggestioni suggerite dalla lettura dei testi di antropologia dei suoi studi, un modus viventi talmente errabondo che farà sì che Paul arriverà persino a rendere impossibile la conclusione positiva dell’amore che prova per la conturbante Esther (la ragazza che ha rappresentato per lui il principale momento di conoscenza e di crescita, una figura davvero fondamentale con la quale ha condiviso la sua vagante esistenza per una decina d’anni, quando era ancora studente e per frequentarla era costretto a spostarsi saltuariamente da Roubaix a Parigi) che finirà però per perdere e alla fine anche rimpiangere, ma il cui bruciante ricordo accenderà la miccia che farà deflagrare sullo schermo il capitolo più corposo e importante del film.
Qualcuno ti ha mai amata più della propria vita? Io vorrei amarti così….
Cosa rimane, nel tempo, di una storia d’amore di siffatta natura? Cosa rimane di se stessi?
E’ proprio su questo quesito che sembra interrogarsi Paul Dédalus (e con lui Arnaud Desplechin) per tutta la durata della pellicola, mentre tenta di capire che cos’è che ha determinato questo suo frustrante bisogno di cercare invece con una ostinazione caparbia e disperata , un prolungato, solitario e volontario esilio.
Il ricordo struggente di questo primo grande amore (già nel precedente Comment je me suis disputé… (ma vie sexuelle) Paul sussurrava ad Esther “tu sei la mia Patria”), è dunque l’asse portante del racconto, un sentimento che per Paul ha rappresentato la necessaria spinta che gli ha consentito di acquisire (sia pure momentaneamente) una precisa identità altrimenti sfuggente (e che non è certo una mera questione di documenti o di anagrafe, perché qui siamo in una zona più “astratta” ed emozionale, in cui la burocrazia non ha alcun peso né c’entra in qualche modo). Nello specifico contesto infatti, l’identità viene definita dalla propria casa e dal proprio Paese, ma anche e soprattutto dal corpo, dalla voce, dalle parole, dai pensieri, dallo sguardo della persona amata che ci sta acconto e che ci accoglie e ci (ri)conosce. Senza questi elementi “identificativi”, tutto precipita e si annulla. Per Paul infatti la morte più che il mancare fisicamente, è la perdita della propria memoria e del proprio passato (e quindi il conseguente smarrimento dell’ identità).
E’ inevitabile dunque (e anche comprensibile) che sia stata proprio la separazione da Esther a dare origine a quella frattura rimasta per lungo tempo insanabile (l’annullamento totale dei ricordi) e che solo l’uomo diventato adulto potrà provare a ricomporre, partendo di nuovo da quella relazione appassionata e tormentata (ma a suo modo “perfetta”) in precario equilibrio perchè spesso disturbata dalla discontinuità dei loro fugaci incontri causata dalla distanza (geografica) che li separa(va), e soprattutto minacciata dalle incomprensioni che la lontananza forzata inevitabilmente genera.
Si può dunque dire che il loro è stato un rapporto dominato dalla parola che per Paul è da sempre fondamentale (Esther tu esisti in una maniera talmente forte, come una montagna… se tu esisti, vuol dire che io non sono chiuso in un sogno o ancora: Non so più cosa sia parte di te o parte di me…).
Nutrito insomma dalle frequenti telefonate e dai lunghi, reiterati contatti epistolari e dalle tante parole che i due si sono detti e scritto, spesso con riferimenti dichiaratamente letterari[2].
Ed è ancora la parola “amore” (inteso anche come rapporto, relazione che determina sofferenza e gelosia ed è quindi causa di momentanei abbandoni, di ritorni, di riconciliazioni, di sofferenze e di sconfitte)che governa i ricordi e riaccende la memoria di quella giovinezza emozionale evocata e rivissuta con lunghi flashback che prendono vita e consistenza da un pacco di vecchie lettere scrittegli dalla ragazza negli anni della loro frequentazione amorosa che Paul ritrova nella sua casa.
Si potrebbe allora concludere che è stata proprio Esther e l’amore che l’uomo ha provato per lei a salvarlo, a non farlo svanire del tutto, a dare un senso alla sua esistenza, a permettergli di vivere il presente , a restituirgli insomma quell’identità che lui ha tentato di sfuggire e che improvvisamente ha ritrovato insieme alla conferma che nonostante tutto, è grazie a quella totalizzante passione che li ha uniti se lui esiste (ed è esistito).
E’ dunque soprattutto l’amore (o la sua utopia) a metterci al riparo dall’oblio (ed è proprio questo – almeno credo – il messaggio che il regista ha inteso veicolare con questo film).
LA STORIA
Se dovessimo fare una sintesi estrema della vicenda (anche chiarificatrice) potremmo riassumerla così: Paul Dédalus in rientro a Parigi dal Tadjikistan, riapre al valigia del passato e torna a dare vita ai ricordi più che dimenticati, abbandonati. Riemergono così dall’oblio la sua infanzia a Roubaix, le crisi di follia della madre, il legame che lo univa a suo fratello Ivan convinto e fervente credente, i sui 16 anni, suo padre vedovo inconsolabile, e quel viaggio in URSS … E con loro, le feste domestiche dell’adolescenza, gli incontri, i teneri momenti di amicizia e i suoi 19 anni, la sorella Delphine, il cugino Bob e il cameratismo virile, le esplosioni di ardore e furore giovanile dei primi turbamenti carnali, le scazzottate e le serate con Pénélope, Mehdi e Kovalki, l’amico che lo avrebbe tradito… E ancora, l’eterna dialettica con la natura (qui incarnata dalla sessualità)… la paura di crescere e di diventare adulto che gli farà commentare le immagini in diretta della caduta del muro di Berlino con un semplice e privato “sono triste perché vedo la mia infanzia che finisce” senza minimamente considerare la portata politica dell’evento,il periodo degli studi, Parigi, l’incontro con la dottoressa nera Béhanzin che porta il nome di un re africano senza regno riconosciuto eroe della resistenza anticoloniale, e la vocazione nascente per l’antropologia… Soprattutto però prende di nuovo forma e consistenza, il ricordo di Esther (sulla cu storia ho già speso tante parole che non sento il bisogni di aggiungerne altre).
Il tutto (ed è un pregio tutt’altro che secondario) senza mai risultare manierato (o peggio ancora affettato e artefatto) poiché ci troviamo davvero di fronte a un’opera preziosa piena di momenti di cristallina autenticità.
GLI INTERPRETI
Della bella prova di Amalric ho già detto. Resta da aggiungere solo l’apprezzamento per l’altrettanto ottima prestazione dei due attori (Antoine Bui e Quentin Dolmaire) che regalano l’acerbità dei loro corpi all’infanzia e alla giovinezza del protagonista e ricordare infine anche Lou Roy-Lecollinet (solare e disinvolta Esther dai tanti fidanzati).
[1] Il riferimento è certamente prima di tutto all’Ulisse dell’Odissea di Omero, ma anche e soprattutto a Joyce, dal quale il protagonista prende il nome che è già tutto un programma e tutt’altro che una casualità. Dédalus fa infatti venire subito in mente il Joyciano Ritratto dell’artista da giovane (1916) (che nell’edizione italiana dell’Adelphi si intitola proprio Dedalus),e il cui protagonista è uno Stephen Dedalus semiautobiografico, come credo si possa definire anche questo Paul Dédalus rispetto a Desplechin.
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[2]Oltre al Dedalus di Joyce (presente non solo nel Ritratto dell’artista da giovane già prima menzionato, ma anche nel suo Ulisse) i riferimenti alla letteratura sono davvero molteplici, a partire dal fatto che Paul, già da bambino, era un lettore accanito, e vanno dalla poesia di Yetas Among School Children scritta nel 1926, a Le avventure di Gordon Pym di Edgar Allan Poe, da L’interpretazione dei sogni di Freud in versione originale tedesca , alle opere di Platone nell’edizione critica delle Belles Lettres , da Lenin a Solgenitsin, , Ci sono anche riferimenti ai libri di Margaret Mead e di Claude Lévi-Strauss in virtù del fatto che – come abbiamo visto - da grande Paul è diventato un antropologo. Non va dimenticato infine Omero (il bell’Ulisse torna a Itaca è appunto la frase con cui Paul viene accolto al suo ritorno in patria).
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