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Agnus Dei

Regia di Anne Fontaine vedi scheda film

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Questo testo contiene anticipazioni sulla trama.

La recensione su Agnus Dei

di laulilla
8 stelle

Peccato che il solito titolo all’italiana tenga lontano dalla visione parecchi spettatori che potrebbero apprezzarlo (lo dico con cognizione di causa).

Polonia – dicembre 1945 – Lo scenario è quello penoso che segue la fine di ogni guerra: il paese in rovina; ovunque la miseria; ovunque il dilagare della violenza dei vincitori, mentre torme di bambini orfani e cenciosi nel gelido e nevoso inverno di quell’anno cercavano di rimediare un po’ di cibo nelle prossimità delle abitazioni dei sopravvissuti. Le truppe di occupazione dell’Armata Rossa avevano fatto e continuavano a fare razzia degli averi e delle donne dei contadini, né avevano esitato a violare, ripetutamente, le suore che abitavano il convento isolato al di là del bosco. Sette suore erano state ingravidate durante quelle incursioni, mentre la badessa aveva contratto la sifilide: storie di ordinaria e orribile sopraffazione, purtroppo. Di quei giorni tremendi aveva tenuto il diario una dottoressa francese, incaricata, dalla Croce Rossa del suo paese, della cura e della riabilitazione dei soldati dell’Armée feriti: Madeleine Pauliac. Agli scarni appunti di quella giovane donna si ispira liberamente la regista Anne Fontaine, che nel film racconta quella vicenda di allora.

Colpisce in primo luogo il modo delicato e attento con il quale è ricostruita la terribile vicenda:  col nome di Mathilde Beaulieu (ottima Lou de Laâge), la dottoressa è protagonista della storia narrata nel film, che è anche e soprattutto la storia del dialogo che a poco a poco si rende possibile fra chi come lei possedeva una visione laica e razionale del mondo e delle umane sorti, e chi, come le suore, viveva il proprio destino con mistica e rassegnata obbedienza a una regola rigidissima, non sempre sorretta da una fede incrollabile, che, anzi, spesso vacillava di fronte a efferatezze così crudeli da rendere insufficienti le preghiere.
Mathilde era venuta a conoscenza di quegli stupri essendo stata avvicinata da Suor Maria (Agata Buzek) che l’aveva invitata a soccorrere una consorella che stava per partorire. Il suo rifiuto iniziale aveva ceduto alla pietà, cosicché Mathilde si era introdotta di nascosto e di notte nel monastero dove, nella diffidenza generale, e nonostante l’aperta ostilità della badessa, aveva fatto la levatrice in un parto difficilissimo. Il suo ritorno regolare, per proseguire le cure alla neo-madre, aveva rotto il gelo della prima accoglienza; il suo deciso intervento in difesa di tutte quando ancora una volta i soldati russi erano entrati nel luogo consacrato, seminando terrore e panico, aveva creato i presupposti di un’amichevole accettazione del suo aiuto, durante tutta la gravidanza, affinché il parto di ciascuna di loro avvenisse nelle migliori condizioni di igiene e di sicurezza.
La situazione delle suore in attesa era oggetto di sofferenze indicibili, non solo fisiche, poiché la badessa (Agata Kulesza) aveva diffuso la convinzione che la profanazione del luogo e dei loro corpi fosse il segno di una maledizione divina che si era abbattuta sul monastero. Portatrice di una visione religiosa fanatica e integralista, la donna paventava lo scandalo che avrebbe, in ogni caso soffocato, a qualsiasi costo: perciò aveva provveduto personalmente ad allontanare i neonati abbandonandoli al loro destino, così come avrebbe voluto abbandonare al loro destino anche le poverette durante il parto.

Era nata a poco a poco, nonostante tutto, un’amicizia fiduciosa fra Mathilde e le monache, grazie alla quale era stata trovata anche la soluzione al problema dei neonati, certo non desiderati, ma innocenti e sicuramente degni di quella compassione che (in questo caso nella forma cristiana della carità) si deve a ogni essere umano in condizione di sofferenza.
Il film è bello, non solo per il modo dialettico e problematico col quale viene messo a confronto il mondo dei laici con quello dei credenti, ma anche per la capacità raffinata della regista di disegnare e rendere credibili, in un mondo che si suppone uniforme e incolore come quello di un monastero polacco, le diversissime individualità delle monache e le diverse sfumature della loro fede.
La bellezza del film, inoltre, si manifesta in modo davvero eccelso nelle immagini altamente suggestive del paesaggio innevato, dei boschi che delimitano la scena e che simbolicamente celano sotto il manto bianchissimo della neve, gli orrori del sangue versato, delle sopraffazioni e della lotta per la sopravvivenza delle creature viventi: quello stormo nero dei rapaci che accorrono a divorare il neonato ai piedi della croce, vale la visione del film. Sorvolo, invece sul romanzetto amoroso fra Mathilde e il medico ebreo, sopravvissuto alle deportazioni, non perché non presenti motivi di interesse, ma per la sua irrilevanza nel disegno complessivo del film.

 

 

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