Regia di Anne Fontaine vedi scheda film
Quando l'amore verso dio si scontra con l'odio verso gli uomini. Basterà l'innato senso materno a riunire fede e mondo naturale dopo una guerra devastante? La regista Anne Fontaine ci prova, le sue madri si moltiplicano un film dopo l'altro, in auspicabili sentenze pacifiste.
In una intervista rilasciata da Anne Fontaine al Bif&est di Bari dove è stato presentato il film, la regista si chiedeva il perché fosse stato proposto proprio a lei il soggetto di Agnus Dei, cosa la facesse ritenere adatta a trattare una storia di quel genere, poco conosciuta e piuttosto scomoda. In parte, e non vuole essere una cattiveria, visti i recenti Two mothers e Gemma Bovery, un pensiero simile potrebbe essere collegato ad un certo modo di appiattirsi sui personaggi che ha contraddistinto i lavori della regista francese, mentre più logico sarebbe invece rimandare la natura del soggetto verso quella sfera al femminile che non manca mai di mettere in discussione e che anche in questo caso si manifesta in misura significativa. Agnus Dei è tratto da un diario di lavoro abbastanza scarno di notizie redatto da una dottoressa francese della Croce Rossa appena dopo le fasi finali del secondo conflitto mondiale, impegnata in Polonia a curare i suoi connazionali sopravvissuti alla guerra e ai campi di prigionia. La dottoressa Mathilde Bealieu nella realtà venne contattata da una giovane suora che la convinse ad aiutare le “ sorelle” di un convento vittime di stupri e violenze da parte dell’esercito di liberazione russo.
Numerose suore rimaste incinta avevano bisogno di un’assistenza al parto che secondo le regole del convento doveva rimanere segreta agli occhi di tutti, pena la sopravvivenza del convento stesso. Dunque alla Fontaine e ai suoi collaboratori è toccato l’onere creativo di romanzare tutto e va dato atto alla regista di aver costruito uno scenario dettagliato anche complesso che mette in luce aspetti che se la Storia ritiene secondari, sono tutt’oggi ricorrenti per brutalità e violenza. Il cambio di registro linguistico risulta dunque notevole, abbinato ad un lavoro sulla fotografia eccellente, sull’attenzione a volti da madonna raffaelliana dei personaggi femminili, ad una resa cromatica pittorica ma anche con dei toni così diluiti che rimandano ad una dimensione interiore del mondo offeso in lentissima ricostruzione. La cifra autoriale di cui Agnus Dei sembrerebbe potersi fregiare pare raggiunta, ma il film denuncia anche qualche passo falso che nonostante la potenza del tema lo tiene ancorato ad una forma cinematografica più consueta. Tra le vie intrecciate nel sottotesto più consone alle corde della Fontaine, ci sono l’amicizia e la solidarietà virate al femminile tra la dottoressa e la suora che la convince, poi l’avvicinamento tra amore spirituale e amore filiale con relativi sentimenti contrastanti che coinvolgono tutte le protagoniste della vicenda. Una superba madre superiora, interpretata da Agata Kulesza, già vista di recente in Ida dove interpretava la zia giudice, indirizza il film verso una spiccata caratterizzazione “alla polacca”, tormento, colpa, malinconia e accettazione della realtà saranno le sue evidenti stimmate. La figura dell’emancipata dottoressa è forse quella che consente maggiormente di lasciare un buon film come questo, ancorato al cinema convenzionale. Nonostante una buona interpretazione dell’attrice Lou de Laage stella in ascesa del cinema d’oltralpe, sconta fortemente il desiderio di sceneggiatori e regista di spiegare fino all’eccesso, di colorire la vicenda aggiungendo come una certificazione, particolari (che potrebbero essere stati anche reali) che in qualche modo sottolineano la giustezza delle scelte, l’obbligatorietà di lenire il male profuso dagli uomini per cancellarne i segni. La gestione della modernità della sua figura sembra talvolta stonare con l’effettiva realtà della situazione, mentre farle ripercorrere in un paio di scene gli stessi eventi subiti dalle suore sembra una sovrapposizione alquanto semplificatrice. L’attenzione riversata sulla spettacolarità coraggiosa della protagonista riduce sottilmente la portata di quel conflitto che le suore traumatizzate esprimono, poiché da uno stato d’animo contrassegnato dal senso di colpa e dalla vergogna, fino alla chiusura e alla negazione verso l’esterno, si mescola troppo facilmente con una conciliazione piuttosto benevola che dona al film un senso di incompletezza. Stimabile in ogni modo lo sforzo della Fontaine, in primo luogo per la svolta che ha impresso al suo lavoro e alla determinazione con cui ha portato a compimento una verità storica. Se vogliamo ritrovare un precedente cinematografico illustre circa le nefandezze dei vincitori, non possiamo dimenticare quello descritto in uno dei capolavori del nostro cinema, La ciociara di De Sica, realizzato in un periodo forse meno disposto a compromessi ed edulcorazioni della realtà.
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