Regia di Fred Zinnemann vedi scheda film
Come dio comanda. Che vuol dire? In un’ottica cinematografica, s’intende. A questa particolare categoria di film non appartengono i capolavori, perché il capolavoro è un meccanismo di sintesi tra genio e sregolatezza, tra equilibrio e smisuratezza. È invece un film in cui tutto torna, in cui la circolarità del congegno non si limita a portare a casa il risultato con inappuntabile mestiere, ma si pone l’obiettivo di sedimentarsi nello spettatore come una quercia nel terreno. Un uomo per tutte le stagioni è, appunto, un film-quercia.
Non è il capolavoro di Fred Zinnemann, per quanto sia sicuramente considerabile uno dei migliori lavori del regista di origini austriache: è un classico nell’accezione più pura del termine, un evergreen che, come il suo protagonista, è buono per tutte le stagioni per l’elegante dignità, il devoto rispetto e la britannica passione infuse nella pellicola innanzitutto dallo sceneggiatore Robert Bolt (che sei anni prima lo portò a teatro con successo) e successivamente da un regista in grado di conferire un’anima alla magniloquenza di immagini importanti per fattura e contenuti.
A confermare l’idea che a mantenere il complesso ci sia un’impalcatura praticamente perfetta, un reparto tecnico al massimo splendore, su tutti la luminosa fotografia di Ted Moore, capace di esaltare sia il bagliore delle otto di una qualunque sera primaverile inglese sia la cupa claustrofobia delle prigioni, e i filologici ed attendibili costumi di Elizabeth Haffenden e Joan Bridge. Dulcis in fundo, la solida, impeccabile tradizione recitativa anglosassone offre saggi di bravura non soltanto grazie ai cammeoni di Orson Welles e Robert Shaw (con la scena madre del riconoscimento sbagliato di Thomas More ad un banchetto) e alle partecipazioni di Leo McKern (un Cromwell particolarmente odioso ed insopportabile) o John Hurt (il vigliacco ed arrivista Richard Rich: memorabile quando More ne ridicolizza l’ambizione al comando del Galles in cambio di una fatale delazione), ma soprattutto per un Paul Scofield carismatico e sommo nel commovente ritratto di un uomo dignitoso e severo, e una Wendy Hiller a cui basta un’inarcata di sopracciglio per confermarsi strepitosa. Teatro in scatola? Forse, ma ad avercene. Valanga di ineccepibili premi, specialmente per Scofield e Zinnemann. Alla fine del film, una voce narrante ci informa delle carriere di coloro che portarono Moore alla ghigliottina: basterebbe per definirlo di intramontabile e necessario interesse.
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