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Un uomo per tutte le stagioni

Regia di Fred Zinnemann vedi scheda film

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La recensione su Un uomo per tutte le stagioni

di lamettrie
9 stelle

Splendido film storico, inappuntabile. Si era nel ’66: nell’applicazione di quanto teatro alto debba esserci nel cinema, i risultati sono encomiabili, per costumi, scenografie, ma soprattutto recitazione e sceneggiatura. Si vede la mano, su soggetto e sceneggiatura, di un drammaturgo che qui scrisse innanzitutto per il teatro, come Bolt.

Gli attori fanno faville: Scofield nella parte difficilissima del protagonista, che trasuda intelligenza, quanto capacità di adattarsi virtuosamente a tutte le circostanze (da qui tanto il titolo quanto l’espressione proverbiale: Un uomo per tutte le stagioni), quanto umanità, quanto profonda cultura, quanto coerenza inflessibile, quanto costante spinta morale, quanto sincera fede… doti che raramente si possono trovare assieme, e che, a detta dei testimoni, si trovarono però in Tommaso Moro. L’autore di Utopia è proprio colui nel quale si coniugarono qualità che solo in una realtà utopica si potrebbero trovare coniugate: eppure questo film mostra aspetti storici piuttosto conclamati, non utopia. È questo il miglior omaggio che si può fare ad un gigante della cultura inglese, umanistica, europea e mondiale: che, appunto, con Utopia ha tratteggiato uno dei migliori modelli possibili della convivenza umana.

Il film ha il merito, anche, di mostrarne tutta la condotta umana: la quotidianità lo assorbe, come uomo politico, come marito e padre, eppure lui, senza venire meno ad un eccellente adempimento silenzioso di questi pur importantissimi compiti, riesce ad usare la miglior misura e tempra e contributo possibili anche per le questioni di più vasto respiro, pure del massimo. Un uomo di cultura vero, esemplare, che non a caso visse nel momento migliore, assieme all’illuminismo, dell’Europa moderna, ovvero l’Umanesimo: anche perché ha pagato con la vita la sua coerenza, senza piegarsi a compromessi al ribasso per la sua carriera. Al di là della fedeltà cattolica che lo portò ad accettare il martirio, tale coerenza, spinta fino all’estremo sacrificio, ne illustra i meriti morali: di fronte a due personaggi che il soggetto mostra contrapporglisi in modo egregio, il re e l’arrampicatore sociale Richard. Il primo è interpretato in modo strepitoso da Robert Shaw, con tuti gli eccessi deliranti del narcisista malato, oppure (a seconda dei punti di vista) del re coscienzioso che legittimamente pretende di non voler avere limiti al proprio potere. Il secondo è interpretato da John Hurt per quello che è. Un laido, viscido verme della terra, pronto a tradire qualunque cosa, a infangare qualunque cosa, pur di vedere coronata l’unica aspirazione della sua vita: quella del potere personale potenzialmente illimitato, pur a dispetto di ogni valore, espresso o no. Il classico malato di potere, ambizioso e individualistico, di quelli che hanno rappresentato la maggioranza della classe dirigente del mondo a tutti i livelli. Un disastro quindi, e giustamente More lo umilia e ridicolizza quando non può fare altrimenti, con eleganza e sobrietà impeccabili.

La galleria dei personaggi memorabili è assai guarnita: Davenport nel duca di Norfolk, schiacciato tra l’urgenza della coerenza e la mediocrità dei propri mezzi, se paragonata al valore mentale di un gigante come l’amico Moro, quasi irripetibile. Oppure Orson Welles nei panni dal cancelliere Wolsey, splendido uomo di potere, abietto anch’egli nella sua ambizione individualistica di onnipotenza, ancor più pericolosa perché non delirante. Sono gli stessi tratti di di lord Cromwell, così ben resi da Leo McKern. Oppure Colin Blakeley, che interpreta un ruspante, generoso, quasi dissennato luterano dell’epoca, di quelli che volevano cambiare il mondo in meglio, con solo più giustizia sociale e più uguaglianza, secondo il dettato evangelico.   Senza dimenticare le figure femminili, quelli familiari per Moro, assai intense.

La storia, in senso lato, viene restituita con esemplare onestà, rigore. Senza concessioni al facile spettacolarismo, come invece è avvenuto sempre più nei decenni successivi. Ma rimanendo sempre appassionante, credibile, profondo: questo un altro grande merito, qui, di Zimmermann.           

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