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La moglie di mio padre

Regia di Andrea Bianchi vedi scheda film

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La recensione su La moglie di mio padre

di moonlightrosso
6 stelle

La tardona con il giovanotto...alla maniera di Andrea Bianchi

Andrea Bianchi (1925-2013) è stato un regista sul quale si è detto e parlato troppo poco, forse anche per una (comprensibile) ritrosìa del personaggio a far parlare di sè e dei suoi films. Spuntato praticamente dal nulla alla soglia della cinquantina, licenziò nel corso dei settanta una congèrie di pellicole di infimo livello ma che avevano l'indubbio merito di carpire con apprezzabile immediatezza i gusti e i desiderata di noi poveri spettatori delle terze visioni, principali fruitori dell'allor fiorente cinematografia di genere.

Innestandosi nel filone inaugurato dal samperiano "Grazie zia", il nostro rivisita alla sua maniera il tema "giovanotto con donna matura", avvalendosi con nostra grande e piacevole sorpresa, di un cast di tutto rispetto, dominato dalla "strana" coppia Adolfo Celi e Carroll Baker.

Antonio Lenzini (Adolfo Celi) è un industriale cinquantenne sposato in seconde nozze con l'avvenente Laura (Carroll Baker) che non riesce a soddisfare sessualmente. Convinto dall'amico medico Carlo (Luigi Pistilli) che il suo problema è solo psicologico, decide di far rientrare in Italia il figlio Claudio (Cesare Barro) avuto dalla prima moglie, allo scopo di affidargli la gestione dell'azienda e di avere quindi più tempo libero a disposizione da dedicare a Laura. Il giovane, oltre a trastullarsi con Patrizia (Femi Benussi), moglie fedifraga e annoiata di Carlo, intreccia, come del resto era ampiamente prevedibile, una relazione, tutt'altro che platonica, con la bella Laura.

Una trama risaputa e trattata millanta altre volte, nella quale Andrea Bianchi, totalmente avulso da ogni velleità autoriale e con innato senso del trash più cristallino, stigmatizza involontariamente ma non per questo con minore efficacia, la crisi dell'istituzione familiare e lo squallore di certa piccola borghesia di provincia.

Al di là di una sceneggiatura zoppicante, vergata dal Bianchi in accoppiata con Massimo Felisatti (assai più a suo agio nel giallo) e di alcuni topòì squisitamente bianchiani come le inquadrature traballanti, la macchina da presa posizionata nei posti più assurdi (persino nell'abitacolo delle automobili per non pagare l'occupazione di suolo pubblico) e il montaggio eseguito con l'accetta, il film non può definirsi scevro di quelle soluzioni bizzarre e stranianti, in grado di appagare a pieno lo spettatore in cerca di emozioni forti.

Coadiuvato da interpreti straordinari, il Bianchi ci immerge in una visione weirda e politicamente scorretta del mondo reale ma assolutamente aderente in quanto tale a una credibile quanto gretta quotidianità.

Un insolito Adolfo Celi si mette incredibilmente in gioco nel ruolo di vecchio impotente; decisamente fastidioso nell'esibire un bolso corpaccione in performances erotiche dai connotati oltremodo spinti, attribuisce a Laura le colpe dei suoi insuccessi nel tàlamo coniugale, il tutto secondo clichès mai del tutto sopìti di certo machismo insensibile e troglodita. Di penoso realismo risultano poi essere l'approccio nei confronti della Baker guidato dai fumi dell'alcool, seguito da un inevitabile "Mi fai schifo!" da parte di quest'ultima, nonchè la preghiera rivolta al figlio, ormai deciso a tornarsene all'estero, di non lasciarlo solo, dichiarandosi anche disposto a condividere con lui l'affascinante consorte.

Dal canto suo la Baker, moglie insoddisfatta ed economicamente dipendente, vela il suo sguardo con la tristezza di chi, costretta a sprofondare in produzioni sempre più povere e scalcinate, aveva subito l'onta dell'abbandono dei sets  hollywoodiani dopo i clamorosi "flop" di "Jean Harlow, la donna che non sapeva amare" (1964) e "La doppia vita di Sylvia West" (1965). Bellezza sfiorita, signora elegante della porta accanto d'un condominio signorile, sogno proibito dal fisico da casalinga ma proprio per questo ancor più "da urlo", mostra un certo imbarazzo a relazionarsi con protagonisti del nostro cinema minore; memorabile rimane l'incontro con la carrarese Gabriella Giorgelli, nei panni di una laida prostituta da strada dal marcato accento romagnolo. Nella lercia stamberga utilizzata dalla nostra per ricevere i clienti, impartirà all'impellicciata e sostenuta Laura consigli e lezioni di "bolognese" per stuzzicare il consorte ma che si riveleranno totalmente inefficaci nell'evitare a quest'ultimo l'ennesima "cilecca".

Proseguendo nella visione, il Bianchi si rende maestro nell'equilibrare il girato infarcendolo di cadute di tono di delizioso "cattivo gusto": tra queste non possiamo non citare la "scappatella" del Celi e del Pistilli con due "prezzolate" spacciatesi per turiste danesi. Definite dal Pistilli "danimarchette" (sic!), trasfigureranno un improbabile accento scandinavo in un assai più probabile sguaiato romanesco, alla notizia di esser "mandate in bianco" dai nostri due brizzolati "dongiovanni".

Tra gli altri interpreti, seguiamo sempre con piacere l'istriana Femi Benussi, vera e propria reginetta della nostrana serie Z, che abbandona il classico ruolo della cameriera per quello altrettanto poco impegnativo di borghesuccia facilona e superficiale. Oltre ai piccanti convegni amorosi con il Barro, nulla più che un insignificante lungagnone dalla basletta cavallina, ricordiamo un indimenticabile convivio in cui la nostra, ergendosi icasticamente a protagonista della serata, declamerà a ruota libera e in maniera quasi delirante, "calembour" agghiaccianti per volgarità e becerume, seguiti dal plauso compiacente e divertito degli attempati e squallidi invitati. Freddure come "cosa vorrebbero le mogli che i loro mariti non abbiano? Sessant'anni! Cosa vorrebbero invece che abbiano? Le corna!" e altre amenità simili, non possono non far gridare al sublime ogni esteta dell'orrido degno di tale nome.

Jenny Tamburi, amica del cuore e confidente di Laura, trascorrerà con quest'ultima una vacanza sulla neve, seguita da un'inaspettata avventura saffica, prodromica di un tragico e straniante finale.

Si conclude così in maniera coerente una pellicola facente parte del periodo migliore dell'oggi compianto cineasta romano che sarà tra i primi a reagire alla crisi cedendo, a partire dalla fine dei settanta, alle lusinghe della pornografia tout court.

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