Regia di Danny Boyle vedi scheda film
La buffa promozione italiana di Steve Jobs ostenta sulla locandina una terna di aggettivi, tra cui un discutibilissimo “molto piacevole”. Se volete leggere qualcosa di molto piacevole, andate a leggere le recensioni sui blog dei fan(atici) della mela morsa: un fiume di delusione, rabbia, disprezzo nei confronti dei realizzatori. A prescindere dalla modestia dei tifosi, questi due elementi (il “molto piacevole” e le reazioni negative) indicano trionfalmente la potenza di Steve Jobs, che non si abbandona all’agiografia del divo né si limita al facile revisionismo di una mitologia alimentata anzitutto dallo stesso divo. Sceglie, con un meccanismo tutt’altro che facile, di ragionare sul personaggio più che sulle azioni del personaggio con una prospettiva che nulla ha della piacevolezza paventata. È un film sgradevole su un personaggio sgradevole: una sgradevolezza che collima con l’assoluta indifferenza nei confronti di un’empatia col pubblico di massa, il disinteresse nei confronti dell’attendibilità cronachistica, la contraddittorietà di un carattere studiato, sviscerato, frammentato col solo, aureo obiettivo di non conoscerlo.
Prevedibilmente non compreso dalla maggior parte degli spettatori bramosi di biopics acritici, Steve Jobs è un grandissimo film che sfrutta la sintassi teatrale (ma anche la grammatica televisiva) per esplodere grandiosamente nella retorica cinematografica. Tre atti per tre lanci, tre momenti emblematici in cui si ripetono i colloqui coi medesimi personaggi che gravitano come subordinati satelliti attorno al sole: al centro della reiterata narrazione, il carisma auto compiaciuto di un aspirante dio che distorce la realtà ed esercita un implicito disprezzo nei confronti di coloro incapaci di connettersi con la sua visione del mondo. Uno studio laico su una figura che gioca con la religione, una riflessione sul titanismo e sul capitalismo del sogno, l’ambizione smisurata di un citizen Jobs a costo di rischiare l’ostilità.
Chi si è sorpreso dell’assenza di Aaron Sorkin nella cinquina per l’Oscar alla miglior sceneggiatura non considera la centralità dell’incubo in Steve Jobs, un fantasma che nell’altrettanto inquietante The Social Network veniva percepito parzialmente se non altro per la congenita antipatia e il latitante fascino del sociopatico Zuckerberg. E così a turbare nella narrazione di questo “inqualificabile vigliacco” è proprio la contraddizione tra immagine pubblica (con tutto l’ovvio repertorio sulla sua difficile personalità) e sfera privata: in una marea di ingiurie, l’epiteto di cui sopra glielo rivolge la figlia, a cui nega inspiegabilmente la paternità attraverso un angosciante algoritmo che fino ad un certo punto si comprende considerando il rifiuto subito dalla famiglia d’origine.
La presunta accettazione avviene nel momento in cui, nella prospettiva del padre, la figlia riconosce nel computer un fratello, una propaggine della sua identità contestata, una spiazzante familiarità. E poiché si tratta sempre di relazioni tra desiderio e realtà, la figura del parricidio appare importantissima: non solo il rifiuto del padre biologico che si ribalta nel momento in cui è il figlio a rifiutarlo, ma anche l’uccisione (metaforica) del padre putativo (l’esimio Jeff Daniels) con la resa finale della parte più saggia. Il filone più tortuoso e forse centrale è proprio in questo esercizio sulle ragioni di una ferocia che ha a che fare più col rancore del bambino che con l’odio dell’adulto: è un film sul dolore, sulle mancanze, sul vuoto, sulla paura di essere peggiori delle proprie paure.
È un film di Sorkin, totalmente di Sorkin e alla Sorkin, inondato di parole destrutturanti il sogno, percorso in luoghi claustrofobici forse non accidentalmente interni a teatri spesso lirici. Il punto di vista appartiene a Jobs, solista di questo concerto: i coristi lo mettono sempre di fronte alla nota (al bip) sfuggente al suo o(re)cchio che filtra ciò che vuole sia la verità (gli occasionali flashback sono suoi e riferiti alla sua interiorità), i loro errori sono i mattoni del suo monumento. Danny Boyle l’ha diretto con una soggezione abbastanza evidente, specie quando osa andare al di sopra dello sguardo dei protagonisti senza lasciare davvero il segno. Grande lavoro di montaggio (Elliot Graham) e nelle musiche sincopate (Daniel Pemberton), cast eccellente dal magnetico e smisurato Michael Fassbender fino alla straordinaria moglie-da-lavoro Kate Winslet.
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