Regia di Danny Boyle vedi scheda film
A quattro anni dalla sua morte, è normale che esca un nuovo film su Steve Jobs.
Il fatto è che lo scomparso co-fondatore di Apple è stato, sia in vita che dopo, talmente santificato e demonizzato (in misure curiosamente quasi identiche) che si è guadagnato definitivamente un posto nell’immaginario del grande pubblico, anche di chi i suoi prodotti non li ha provati nemmeno una volta (e ce ne sono ancora, incredibilmente).
Il problema è che, nel recensire Steve Jobs, l'ultima fatica di Danny Boyle, non si può prescindere da quello che ha fatto (e ha generato) Jobs, oltre quello che è stato. Non si può, punto e basta.
Su Jobs scrissi un lungo e accorato articolo quando il cancro se lo portò via.
A tutt’oggi, i suoi detrattori lo ricordano – ad essere buoni – come uno non all’altezza del suo mito: non aveva inventato niente, non era né un bravo tecnico o un bravo designer.
Quelli che lo santificano, invece dicono che era un genio, un visionario, un innovatore.
Ed hanno ragione entrambi.
Come detto in una delle battute migliori del film, si può essere persone di talento e restare brave persone. Oppure no.
Ma facciamo qualche passo indietro.
Negli anni settanta, due giovanotti chiusi in un garage ebbero delle intuizioni.
Alla luce di un tubo al neon da pochi soldi, concepirono, progettarono e realizzarono l’embrione di una macchina destinata a cambiare – letteralmente – il mondo.
Se non l’avessero fatto loro, magari ci avrebbe pensato qualcun altro, non affermo mica il contrario, ma così è andata.
All’informatica serviva una via per arrivare alle masse, e questa via l’hanno creata i due Steve.
Jobs trafugò la tecnologia dell’interfaccia grafica del Macintosh dallo Xerox Parc e la regalò (si fa per dire) al mondo. Non è più un segreto per nessuno.
Creò un computer che era come un’automobile dove non potevi aprire il cofano perché lui decideva che non ne avresti avuto mai bisogno. Scelte estreme, discutibili, spesso impopolari, spesso anticipatorie.
Jobs, il grande umanista dell’informatica, metteva sempre l’uomo e la sua esperienza al centro di ogni cosa. Rifiutava qualsiasi dogma, qualsiasi assunto, sputava sullo status quo e non cedeva di un millimetro nemmeno sui dettagli apparentemente più insignificanti.
Le sue creazioni erano invariabilmente diverse da qualsiasi altra cosa era in giro.
Assemblaggi, rimasticazioni, rivisitazioni: chiamateli come volete, se non volete chiamarli invenzioni. Ma abbiate anche l’onestà di riconoscere che Jobs seppe guardare sempre dritto in una direzione, e quella direzione era un punto immaginario oltre l’orizzonte davanti a sé.
Un orizzonte che non avrebbe raggiunto mai, ma inseguito per tutta la vita, spazzando via attorno a sé approssimazioni, compromessi, o, semplicemente, la roba vecchia, che magari funzionava ancora bene, ma che non l’avrebbe fatto per sempre.
Non ho idea se chi scrisse il memorabile testo per lo spot Think Different si fosse basato proprio su Jobs, ma di certo gli calzava a pennello:
Questo film lo dedichiamo ai folli,
agli anticonformisti, ai ribelli, ai piantagrane,
a tutti coloro che vedono le cose in modo diverso.
Costoro non amano le regole, specie i regolamenti,
e non hanno alcun rispetto per lo status quo.
Potete citarli, essere in disaccordo con loro,
potete glorificarli o denigrarli,
ma l'unica cosa che non potrete mai fare è ignorarli.
Perché riescono a cambiare le cose.
Perché fanno progredire l'umanità.
E mentre qualcuno potrebbe definirli folli,
noi ne vediamo il genio.
Perché solo coloro che sono abbastanza folli da pensare
di poter cambiare il mondo, lo cambiano davvero.
Jobs faceva esattamente questo.
In queste poche righe c’era tutto lo spirito che animava la Apple degli anni ottanta e novanta, c’era tutta la filosofia che conquistò milioni di persone spingendole a sviluppare un attaccamento quasi religioso a un’azienda che – a volerla ridurre ai minimi termini – vendeva computer.
Jobs era riuscito in qualcosa che nessuno aveva mai tentato prima, era diventato un santone, un genio, un mistificatore, un punto di riferimento, un furbo, un rivoluzionario. Un’icona.
Ecco, Boyle ignora – scientemente – tutto questo.
E ci rifila una vicenda (strettamente familiare, strettamente privata) da drama comedy all’americana dove tutto è già visto e sentito e ampiamente digerito… e poi, sullo sfondo, cerca di metterci il Macintosh, il Next e l’iMac.
Solo che può andare bene per dieci minuti. Venti, al massimo.
Un film intero sulle vicissitudini familiari di Jobs è un film sostanzialmente inutile.
O, ad essere più precisi, è un film che manca il bersaglio.
La prima volta che vidi un film su Steve Jobs fu quando lui era ancora vivo e vegeto, ed era quella roba un po’ ingenua e parecchio televisiva de I Pirati di Silicon Valley e pensai che, con un pelo di impegno in più e magari un budget più consistente, si poteva fare di meglio. Non sapevo che, anni dopo, sarebbe venuto il Jobs di Stern con Ashton Kutcher, che sarebbe riuscito addirittura a farmelo rimpiangere.
Capirete quindi che, quando seppi che Boyle era al lavoro sul progetto Jobs, mi sentii come quello che vede finalmente arrivare “la volta buona”.
Perché di Boyle è difficilissimo parlarne male.
Uno che si è portato a casa un Oscar, due nominations più un’altra manciata di premi e riconoscimenti internazionali per robe come Trainspotting, The Millionaire e Piccoli omicidi tra amici.
E, anche senza Oscar e senza premi, a me Boyle piace.
Ha sempre dato un’impronta definita ai suoi film, dimostrando di sapersi scegliere con cura i soggetti, non sempre ottenendo chissà quale riconoscimento dal pubblico (il suo ultimo film, In Trance, è passato semi-inosservato). Ha realizzato un bel film di fantascienza come Sunshine, riuscendo ad omaggiare mostri sacri come 2001: Odissea nello spazio, Solaris e Alien uscendosene con un’opera autonoma e visivamente splendida, è riuscito a girare un horror (28 Giorni) che ha portato al cinema persino me che – in genere gli horror li schifo, ha fatto un film tratto da un romanzo difficile come Trainspotting (e ora sta lavorando sul suo sequel)… in poche parole, è uno da tenere d’occhio. E quello che fa lo fa con un certo stile.
E invece cosa ho visto, all’anteprima romana del film?
Steve Jobs che tratta di merda Andy Hertzfeld. Steve Jobs che tratta di merda John Sculley. Steve Jobs che tratta di merda Joanna Hoffman. Steve Jobs che tratta di merda Joel Pforzheimer. Steve Jobs che tratta di merda Steve Wozniak.
E soprattutto Steve Jobs che tratta di merda l’ex partner Chris Ann Brennan e il risultato della loro unione, Lisa Brennan-Jobs.
Una storiella un po’ meschina e un po’ da Eva 3000 – quella che vide protagonista il caro estinto – di cui, diciamolo, avremmo preferito sapere quello che già sapevamo senza stare a romanzare ulteriormente una vicenda che non dev’essere stata piacevole per nessuna delle parti coinvolte.
Cos’altro ha scelto di infilarci Boyle?
I due Steve al lavoro nel famoso garage? Nemmeno l’ombra. La genesi, anche solo a livello di idea, della macchina “for the rest of us”? Del tutto ignorata. La visione alternativa, utopica e distopica assieme che Jobs aveva del rapporto tra l’uomo e la tecnologia (e c’erano i mezzi e l’occasione per mostrarla ricorrendo allo straordinario talento visivo di Boyle)? Assente. I sommovimenti sociali e culturali che causarono oggetti come il Macintosh, il Newton, l’iPod e l’iPhone? Meno di zero.
Ma non è questa la cosa peggiore del film. Anzi, a conti fatti, questa è roba di cui abbiamo già sentito ampiamente parlare e tornarci sopra senza una chiave, una rilettura coraggiosa o un’angolazione inedita sarebbe stata un’operazione che sarei stato il primo a snobbare.
La cosa peggiore del film è che nonostante la mole di professionalità impiegate, nonostante una bella regia, bella fotografia, ottime interpretazioni (Fassbender e la Winslet sono semplicemente immensi) e nonostante dei dialoghi che meglio scritti di così (ringraziate Sorkin per quelli) proprio non si poteva, Boyle è riuscito a confezionare un film noioso.
Il più noioso della sua carriera.
Colpa di uno script davvero sbagliato, troppo teatrale e incentrato esclusivamente su uno soltanto – credetemi, il Mac e compagnia è solo contorno e fumo negli occhi – degli aspetti della vita privata di Jobs. E colpa pure di una inedita (per Boyle) incapacità di gestire uno dei personaggi più iconici della nostra epoca.
Poi, sì: le sequenze di raccordo tra i tre principali momenti in cui che Boyle sceglie per raccontare la storia (il 1984, la presentazione del Macintosh, il 1988, la presentazione del Next, e il 1998, la presentazione dell’iMac) sono belle, il montaggio alternato nella sequenza centrale con Daniels/Sculley (per quanto già visto) è ben confezionato, e tre o quattro battute sono piuttosto divertenti (ma la scelta di girare tutto in interni è un pelo stringente e poco coinvolgente)... ma in mezzo ci si annoia troppo spesso, della vicenda tra padre e figlia dopo la seconda volta che viene servita non ne vuoi sapere più e invece, dopo un po’, capisci che non si parlerà praticamente d’altro.
Fino all’ultimissimo fotogramma.
In conclusione, Steve Jobs è un film sbagliato. Né un biopic nel senso più classico ma nemmeno celebrativo come molti forse avrebbero voluto, un film che sarebbe potuto essere “definitivo” sull’uomo e sul mito Jobs se non fosse rovinato da un – a mio avviso palese – errore di puntamento… che è una cosa che non credevo che avrei mai imputato a Boyle.
E questa è forse la sua colpa più grossa.
PS Li accettate un paio di consigli? Recuperate “Lo Zen di Steve Jobs”, la graphic novel su Jobs di Caleb Melby e Jesse Thomas (rispettivamente della redazione di Forbes e il fondatore di JESS3) o l’agile volumetto “Lettere a Steve Jobs”. Sono solo due esempi di come si può gettare uno sguardo nuovo (e intrigante) su un personaggio di cui sembra si sia già detto e scritto tutto.
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