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L'uomo di marmo

Regia di Andrzej Wajda vedi scheda film

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La recensione su L'uomo di marmo

di Peppe Comune
8 stelle

Agnieszka (Krystyna Janda) è una giovane studentessa di cinema che deve girare un film per conseguire il diploma di regia. Quasi per caso, nei depositi del museo di Arte Moderna di Varsavia, rinviene una statua di marmo che scopre essere quella di Mateusz Birkut (Jerzy Radziwilowicz), uno “stakanovista” del lavoro che nella costruzione del quartiere industriale di Nova Huta, alla periferia di Cracovia, stabilì un importante risultato : piazzare più di 30.000 mattoni in 8 ore di lavoro. Agnienszka decide di fare un film su questa figura emblematica degli inizi degli anni 50, anche perché, visionando in parallelo i cinegiornali d’epoca e i filmati mai mandati in onda a “causa di motivi tecnici”, vuole scoprire come mai un eroe del lavoro, erto a simbolo iconografico dal regime comunista sovietico, sia all’improvviso piombato nell’oblio più assoluto. Oltre a visionare innumerevoli filmati d’epoca, la giovane regista decide d’intervistare chi ha conosciuto direttamente Birkut e magari potrà fornirgli indizi su dove possa rintracciarlo : Jerzy Burski (Tadeusz Lomnicki), autore del film documentario su Birkut “Costruiscono la nostra felicità”, intanto diventato un regista di fama internazionale ; l’ex moglie Hanka Tonczycz (Styna Zachwatocz), vecchia gloria dell’atletica leggera polacca con cui ha avuto un figlio ; Michalak (Piotr Cieslak), un ex funzionario addetto alla propaganda del partito operaio ed attuale gestore di un locale per spogliarelliste ; l’amico Wincenty Witek, suo stretto collaboratore anche al tempo in cui Birkut girava per i cantieri della Polonia per delle dimostrazioni. Agnieszka scopre la natura meramente propagandistica del “fenomeno” Birkut, le falsità del regime sovietico che affossarono le speranze genuine di uomo che credeva sinceramente nell’ideale socialista. 

 

 

“L’uomo di marmo” rappresenta la summa poetica di Andrej Wajda per come raccorda in uno stesso schema narrativo il percorso storico della Polonia lungo più di 25 anni, le vicende umane che si fanno storia in divenire e le riflessioni sul cinema. Temi cari all’autore polacco che tornano spesso nei suoi film e che qui trovano il modo di stare insieme in un’opera che brilla per impegno civico e rigore filologico. “L’uomo di marmo” è un film tutto giocato sul contrasto tra il valore etico da attribuire all’arte che deve servire all’uomo a fargli riconoscere il proprio ruolo nella storia, e l’arte come strumento di manipolazione della realtà messa a punto da chi ha tutto l’interesse a indirizzarne rigidamente gli esiti. In tutto questo, un valore centrale è attribuito all’arte cinematografica, e non solo perché il film è costruito come una sorta di matrioska che contiene dei film dentro altri film, ma soprattutto perché è attraverso la costruzione cinematografica che viene rappresentato l’incontro-scontro tra arte, storia e politica, tra l’esigenza malata del regime sovietico di piegare la creatività artistica alle proprie esigenze ideologiche e la capacità propria dell’arte di sapersi comunque riscattare ed emergere nonostante tutto come inestinguibile fonte di sapere. Due sono le direttive usate da Andrej Wajda. La prima fa perno su due sequenze esplicative, entrambe caratterizzate dalla relazione funzionale tra le immagini dei cinegiornali d’epoca e quelle che ritraggono Agnieszka visionarle con vorace curiosità, ovvero, tra un film costruito per enfatizzare a comando i voleri del regime sovietico e un film che vuole nascere proprio per fare più chiarezza su quella storia. La prima sequenza documenta l’abilità di Birkut che piazza, insieme alla sua squadra, più di 30.00 mattoni in 8 ore di lavoro. Un film documentario che ne esalta lo spirito operaio, la spinta stakanovista, che fanno emergere la sincera convinzione di Birkut che così facendo è “possibile costruire una casa per ogni singolo operaio”. Tutte le persone riprese ostentano felicità per quanto stanno vedendo realizzarsi, le immagini esprimono una distinguibile enfasi apologetica. Nella seconda sequenza, invece, si vede l’effige di Mateusz Birkut essere rimossa dalla balconata di un palazzo istituzionale di Varsavia. Le immagini appaiono più tetre questa volta, esprimono severità formale, rigore dirigistico, le persone che vi appaiono sembrano tutt’altro che felici. Capiterà altre volte ad Agnieszka di doversi confrontare con le differenze “formali” tra le immagini ufficiali trasmesse dai cinegiornali d’epoca e quelle reperite tra gli scarti di magazzino e mai mandate in onda per dei “motivi tecnici”. È questo contrasto tra l’esaltazione dell’eroe operaio prima e l’oblio cui viene fatto oggetto la sua figura iconografica dopo, a spingere Agnieszka a voler penetrare nel profondo la storia di Birkut, a voler capire perché è scomparso nel nulla e perché un paese che lo ha immortalato con una statua celebrativa (l’uomo di marmo del titolo) l’ha come rimosso dalla sua memoria storica. Una ricerca che diventa un’indagine allo stesso tempo sul cinema e sul regime politico che ha investito la Polonia, al di la di ogni vincolo spazio temporale. Perché è tutta incentrata sulla facoltà di intervenire ad indirizzare il senso della verità storica, di agire arbitrariamente sulla riproducibilità delle immagini, di montarle e rimontarle a proprio piacimento, tagliere e incollare la pellicola come più conviene, decidere quello che è più giusto far vedere e quello che deve essere assolutamente censurato. Ma per il Cinema questi aspetti rappresentano delle caratteristiche peculiari, gli elementi specifici che ne connotano la vena creativa, che servono a definirlo come un luogo dove si pratica una magia tutta particolare : quella di aiutarci a capire la realtà circostante attraverso la falsificazione esibita. Applicati alla gestione  politica di un paese, invece, quegli aspetti servono alla volontà di chi gestisce il potere di irreggimentare il paese sotto il dominio del pensiero unico, di negare la verità, non come al Cinema ammettendo la natura parziale della fetta di mondo catturata dalla macchina da presa, ma pretendendo di presentare quella parzialità imposta come l’unica verità riconosciuta.

Agnieszka, dunque, penetra con il cinema e attraverso il cinema la dittatura sovietica in Polonia, ne smaschera le fallacità teoriche mostrandone le sole finalità propagandistiche. Questo ci porta alla seconda direttiva fondamentale del film, ovvero, i percorsi paralleli delle vite di Birkut e Agnieszka che ci portano continuamente dagli anni 50 ai 70, dall’assoluta subordinazione della Polonia all’Unione Sovietica fino alla rivolta di Danzica, quando il vento di protesta culmina con la nascita di Solidarnosc, il primo sindacato libero nato in un paese del blocco sovietico. Quando la Polonia avrà la forza di affermare con fermezza che Varsavia non sarà un’altra Praga. Agnieszka è una donna sveglia e risoluta, il suo modo deciso di voler penetrare la storia del suo paese contrasta apertamente con quanti sembrano sempre nutrire l’interesse a rimanere reticenti, soprattutto quelli che con Birkut hanno avuto rapporti diretti, che da servi di regime si sono semplicemente trasformati in utili idioti, sempre pronti a saltare sul carro dei vincitori. Mettere in ordine i diversi passi che compongono la vita di Birkut significa per la giovane regista ricostruire con maggiore esattezza il film della sua vita attingendo da quelle immagini oscurate dal regime, ovvero, controbattere la falsificazione delle uniche immagini che il regime ha ritenuto opportuno far vedere restituendo all’arte cinematografica la sua capacità di sviluppare in ognuno il senso critico attraverso un maggior numero di strumenti cognitivi da poter analizzare. Mateusz Birkut, invece, è un uomo semplice e votato al lavoro, crede sinceramente che attraverso l’etica del lavoro si possa costruire una società migliore, che il suo particolare contributo, unito a quello di tanti altri, possa servire la causa Socialista. Ma diventa suo malgrado uno strumento di propaganda, un’icona lanciata in pasto alle masse per indottrinarle al mito della forza. Si rende ben presto conto di essere diventato un divo da cinegiornali, che la sua umana fierezza ideologica è stata soppiantata dalla disumana attitudine del regime sovietico di costruire simboli di cartapesta per farne degli inconsapevoli strumenti di potere. La parabola esistenziale di Birkut è la dimostrazione concreta che le prime vittime della effettiva costruzione di uno Stato Socialista sono stati quelli che con sincera devozione hanno creduto possibile la sua realizzazione.

“L’uomo di marmo” è certamente un film figlio del suo tempo e del paese che ne ha giustificato la nascita, ma conserva un’efficacia formale ed un pregio stilistico ancora inattaccabile. Film importante di un grande del cinema europeo.

                                       

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