Regia di Paul Verhoeven vedi scheda film
“Lo stupro è stato necessario” è già un biglietto da visita per questo film, perverso in tante manifestazioni: nella personalità della protagonista, nella trama, nei rapporti tra le figure principali, relazioni mai limpide e sempre con qualche segreto inconfessabile. È un thriller poco tradizionale e più psicologico.
Difficile dire se questo è un film più di Paul Verhoeven oppure più di Isabelle Huppert, perché escludere uno dei due nomi sembrerebbe quasi indebolire la sua influenza sulla riuscita finale dell’opera. È pienamente un film del regista olandese, fuor di dubbio, sicuramente nel solco del suo modo di far cinema, sin dall’esplosione di notorietà di cui poté godere con il suo film più eclatante e provocatorio, quel Basic Instinct che lanciò anche la carriera della sempre bella Sharon Stone. Verhoeven sin d’allora dette una chiara prova di cosa vuol dire il thriller contaminato dalla provocazione eros, dalla presenza conturbante del personaggio femminile non succube dell’uomo ma anzi dominante soprattutto dal punto di vista mentale. La psicologia della donna che decide l’andamento della storia raccontata, il suo sì o il suo no determinante per il prosieguo di una relazione, l’indicazione del percorso (più volte periglioso) da seguire sempre deciso dalla “lei”: ecco i fattori caratterizzanti che stabiliscono i tortuosi meandri entro cui le storie di Verhoeven si sviluppano.
Nonostante questa premessa l’impressione che si acquisisce al termine della visione di Elle è che senza Isabelle Huppert sarebbe stato tutt’altro film. Con la sua tipica espressione impenetrabile, a volte infastidita, molto spesso insofferente verso chi la circonda, insensibile alle normali reazioni umane, la figura coriacea e indomabile di Michèle domina il film dall’inizio alla fine, dando un imprinting inimitabile e non ripetibile da altre artiste. Un minimo di gestualità, un accenno minimale di espressione del viso, un sorriso sarcastico appena abbozzato, uno sguardo solo apparentemente inespressivo ma carico invece di disprezzo o meglio ancora di dileggio che tiene a distanza di sicurezza chi la approccia: è un continuo atteggiamento comportamentale che la porta ad essere temuta e desiderata nello stesso tempo. Perfino nell’ambito dei suoi collaboratori, oltre che dei suoi più intimi amici compreso il suo ex marito, c’è chi si sente attratto anche sensualmente dalla sua forte personalità e questo particolare diventa uno dei giochi psicologici che il regista si compiace di seminare qui e là, portandoci in diversi momenti fuori strada nella nostra indagine interiore per scoprire l’autore del misfatto odioso che dà l’inizio alla storia. Un tocco morboso di hitchcockiano mistero che attraversa il film dall’inizio alla fine, a cui il regista aggiunge il gioco perverso della vittima che si fa esca, della preda che lascia tracce al predatore per farsi desiderare ancora. È il gioco assurdo che diventa un appuntamento sado-maso: desiderare di essere desiderata, fino alla voglia di fare/si del male. Con la beffarda soddisfazione di far credere al predatore di essere temuto che invece diventa facile preda di chi lo aspetta vicino alla trappola. È la nemesi della vergine stuprata!
Nel contempo non si può non notare che il film è una miscelazione di molti (troppi?) ingredienti: personaggi doppi e poco affidabili, di amici che ti si possono rivoltare contro ma che nel frattempo accorrono subito in caso di bisogno, di madri che non vogliono invecchiare con amanti interessati, di padri insignificanti che si trasformano in assassini assetati di sangue, di tendenze e scelte sessuali non necessariamente etero. È un falò, quello di Verhoeven, in cui non brucia solo un tipo di legna, ma è una discarica di materiale indifferenziato che lui scaraventa in due ore sulla fiamma e noi siamo costretti a barcamenarci tra tante situazioni e personaggi, ognuno dei quali non si sa mai quanto possano contare e chi tra loro possa mai essere l’autore dello stupro iniziale e quanto ognuno di loro possa essere odiato o amato dalla imperscrutabile protagonista. Verhoeven ha voluto spiazzarci più volte, sia durante lo sviluppo della trama che come concettualità dell’opera e ciò non è detto che sia stato un pregio, ma una cosa è certa: che non ci si annoia, e questo è sicuramente uno scopo che si era prefissato.
C’è quindi un filo che unisce La pianista di Haneke e la Michèle di Elle – non a caso sempre con la Huppert - e ce n’è un altro tra quest’ultimo film e Basic Instinct dello stesso regista olandese. Con il primo ritroviamo uno strano concetto del sesso, perverso e malato; con il secondo c’è ancora una donna forte al centro della scena e se quello finiva con un punteruolo da ghiaccio, questo trova la definitiva spiegazione tramite un duro ciocco di legno. Giustizieri entrambi.
“Lo stupro è stato necessario” è già un biglietto da visita per questo film, perverso in tante manifestazioni: nella personalità della protagonista, nella trama, nei rapporti tra le figure principali, relazioni mai limpide e sempre con qualche segreto inconfessabile. È un thriller poco tradizionale e più psicologico, ove per conoscere il “colpevole” non è necessario aspettare la fine, quando invece ci tocca attendere per capire dove sfociano le indagini personali della Michèle al centro della imprevedibile storia. Storia insolita, spiazzante, con sbalzi di umore e scherzetti del regista, che si diverte a seminare piccoli momenti di trovate che allentano la tensione. Non è un thriller tradizionale anche perché non c’è una persona normale nell’intera compagnia, avendo ognuno di loro problemi personali da risolvere. L’unica ineffabile, sorniona, calcolatrice fredda, tenace, imprevedibile nelle reazioni è proprio Michèle, perversa forse più di tutti gli altri. E forse solo Isabelle Huppert poteva impersonare un personaggio di queste caratteristiche, molto ma molto vicina alla Erika pianista hanekiana.
Oltre alla superlativa performance di Isabelle Huppert, una menzione meritata a parte per il gatto di Michèle, vero e unico testimone del fattaccio iniziale e unico personaggio del film che ha tanto in comune con la protagonista: sornione, indifferente, egoista (come ogni buon gatto), sembra la sintesi della sua padrona. Soprattutto quando, finita l’irruzione dell’uomo in nero, si gira e se ne va. Infischiandosene.
Buon film, in conclusione.
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