Regia di Paul Verhoeven vedi scheda film
E’ tristissimo vedere la fuoriclasse Huppert coinvolta in un’operazione fallimentare come questa. Ma non avrò pietà neanche di lei: nessuno le ha chiesto di accettare la parte. Forse pensava che dietro ad un personaggio così disturbato ci fosse ancora Haneke, come tre lustri fa. E invece no. A questo giro le tocca Verhoeven, uno dei grandi equivoci della critica contemporanea, il prototipo del regista titolare di un cinema che dietro alla facciata volgare ed esibizionistica nasconderebbe tutto un discorso sullo sguardo, sul ruolo dello spettatore, sul corpo della donna ed altri cascami teorici. E invece no. Semplicemente l’olandese non ne ha le capacità. Non è il Korine di “Spring Breakers”, né lo Schrader di” Canyons”, né il McQueen di “Shame”, meno che meno l’ispirato Von Trier di “Nymphomaniac”, tutta gente che ha saputo giocare con gli stereotipi, con le aspettative dello spettatore e soprattutto col sesso, riuscendo ad imbastire una fertile dialettica sullo stato del cinema e dell’immaginario di questi spregiudicati anni 10.
Da dove cominciamo? Non saprei nemmeno io. “Elle” è un film di premeditata e disonesta sgradevolezza, una squallida rassegna di brutture reali, virtuali, (dis)umane, bestiali, che si vorrebbero spiazzanti, quando invece risultano solo prevedibili. Stupri, incidenti, massacri, stalker impenitenti che lasciano chiazze di sperma su letti altrui, milf in carriera prestate all’industria video-ludica che passano il tempo a farsi stuprare, cornificare le colleghe, molestare i sottoposti dopo aver tentato di corromperli, cozzare automobili e gettare spray al pepe addosso a gente che non c’entra un cazzo. Non è finita: bisnonne imbottite di botox con l’immancabile toy-boy, bamboccioni di etnia caucasica incapaci di rendersi conto che il proprio bebè è di pelle nera (imbarazzante la scena del parto: scult istantaneo), mogliettine di fede cristiana che paiono l’unico bersaglio del regista (ah, se vi interessa una dose di anti-clericalismo facilone, stupidissimo e a buon mercato, qui ce n’è in abbondanza). Ancora: attempati professori bo-bo (come piace dire ai nostri cugini) che vanno a letto con l’immancabile sciacquetta fuori corso, incapace persino di riconoscere i libri scritti dal proprio ganzo (altra rivelazione imbarazzante, che arriva in coda, quando il film sembrava aver già oltrepassato ogni soglia del ridicolo). E poi: passerotti spiaccicati, insetti calpestati, persiane che non si chiudono a causa di un vento che, a regola, dovrebbe scoperchiare tetti…Va bene, basta così.
Ora, tutto questo è semplicemente ridicolo, da lasciare a bocca aperta per le continue vette trash che vengono toccate. Ma non è certo l’assurdità dei personaggi e della vicenda il problema del film. Bunuel ha costruito una carriera su trame assurde, e ciò ha fatto di lui un maestro. Fellini ha riempito i suoi film di figure improbabili: maestro pure lui. Marco Ferreri ha fatto stuprare ed evirare uomini nelle sue opere, e li ha fatti persino innamorare di un portachiavi: ed era un genio. Reygadas ha fatto film senza capo né coda, dove c’è spazio anche per un protagonista che si fa una sega guardando le immagini della propria squadra del cuore vincere una partita. Apichatpong si è spinto forse oltre. Entrambi sono fra i maggiori registi contemporanei. Perché invece Verhoeven ha fatto una figuraccia? Ma perché non sa gestire il più difficile dei registri: il grottesco. Con un simile script, il grottesco era una via obbligata. O l’onirico, il surreale, lo psicoanalitico. Oppure il metaforico. O la satira. Insomma, di strade ce n’erano, ma non questo indigesto pasticcio di thriller erotico e commedia di costume, che non riesce in alcun modo ad ottenere quella “sospensione dell’incredulità” che è la condizione necessaria per poter accettare un copione come questo. Verhoeven stesso ha ammesso in una recente intervista di essere un regista “di genere”. E allora, dico io: faccia cinema di genere. Torni alla fantascienza o al thriller erotico patinato anni 90. Quello è il suo campo da gioco.
“Elle” si compiace del suo calcolato cinismo. Pretende di shockare e spiazzare e irritare lo spettatore “generalista”, ma finisce invece per assecondarne le spinte sadiche ed amorali. E così, il ritratto di una donna che dissacra le ceneri della madre e il cadavere del padre, che è anaffettiva con tutti, scorretta ed ipocrita come tutti, senza un valore che sia uno, sia esso l’amicizia o il rispetto per il proprio corpo, finisce per aderire dogmaticamente all’imperante retorica del cinismo e dell’amoralità che imperversa oggi come unica regola. Stesso dicasi per gli altri personaggi, uno più squallido dell’altro, tutti triti e convenzionali, con la chicca dello stupratore mascherato che nella vita quotidiana fa il broker (che stronzo, eh? come dire: dietro al mondo “immateriale" della finanza si celano i peggiori impulsi carnali...ma davvero?!). Una fauna di borghesotti, arricchiti in qualche maniera, così benestanti da poter risolvere drammi esistenziali con una scrollata di spalle, come automi privi di coscienza e sentimenti, programmati per tirarsi colpi bassi a vicenda. E lo sguardo del regista ovviamente si guarda ben dal giudicare, dall’irridere, dal mettere alla berlina. Povero mondo! E pensare che all’epoca Bunuel era ritenuto amorale, solo perché non usava le psicologie! La congrega di facce-come-il-culo che popola questo film, Don Luis l’avrebbe fatta esplodere, altrochè! Quando ancora il cinema sapeva usare l’arma dell’assurdo per far saltare le false convenzioni morali, sociali e ideologiche…
E non si dica che il regista ha voluto rifiutare in toto la psicologia. Il padre di Michelle ha ucciso 37 persone davanti agli occhi della figlia di 10 anni: un trauma che spiegherebbe certi suoi disturbi sessuali. Non regge neanche l’idea che lo stupro sia frutto della sua immaginazione: per come è costruita e organizzata la messa in scena, e per come è definito il rapporto fra Michelle e lo stupratore, nessun elemento può autorizzare questa lettura. Poteva essere d’aiuto il riferimento alla realtà virtuale (il videogioco prodotto dalla ditta di Michelle), per creare quell’ambiguità fra reale e finto, ma Verhoeven non ne ha saputo approfittare. Ora, capite bene che se salta la via onirica-surreale e non si crea alcun tipo di straniamento, lo spettatore è costretto a prendere sul serio i personaggi e i loro comportamenti. Auguri. Alla fine Michelle e la donna che ha cornificato se ne vanno a vivere assieme e magari, chissà, ci scappa pure la storia lesbo-chic. Materia per un sequel…Ah, per carità: non tiriamo in ballo la polemica “misoginia contro femminismo”. Un film del genere non è in grado di sollevare un dibattito su simili temi.
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