Regia di Paul Verhoeven vedi scheda film
Una solida donna di successo reagisce ad una violenza subita. Non cerca la vendetta, ma ascoltando se stessa troverà la via della giustizia a qualunque costo.
“Se non ci si vergogna abbastanza, nulla ci ostacola nel fare qualsiasi cosa.” (Elle)
Il regista olandese di Basic Istint, di Robocop e Starship Troopers sembra mettersi definitivamente alle spalle quella cospicua parte di carriera che lo ha visto muoversi all’interno del cinema americano con un proverbiale pragmatismo, con l’intento non sempre riuscito di personalizzare profondamente i suoi film, cercando di far emergere dalle sue storie un senso morale che non fosse solo controcorrente, ma in grado di innescare qualche riflessione in merito. Paul Verhoeven ha definito tuttavia la sua lunga carriera americana come un ritorno ad una seconda infanzia a scapito di una prima fase registica europea molto più dedita al realismo, ma ridurre in banalità le capacità di costruzione e di sviluppo sfruttate dal regista nello sci fi sarebbe imperdonabile. Uno dei titoli più interessanti di Cannes 2016 risulta essere Elle, di produzione francese, tratto da un romanzo dal quale Verhoeven trova il guizzo vincente per elaborare a modo suo un thriller drammatico con l’immancabile sfondo di violenza, ambiguità ed erotismo. Dove il regista si discosta dallo script originale è proprio nello scavo psicologico dei protagonisti, non si addentra affatto nel sottotesto ma lascia che venga creato dalle attese e dalle rivelazioni della vicenda, quanto mai perversamente cruda e realistica. Michèle, una cinica e determinata donna di successo, viene stuprata in casa da un uomo mascherato. La risposta alla violenza subita almeno in apparenza non sarà quella ritualizzata della donna offesa e ferita, ma di una persona capace (e nel film se ne scopriranno i motivi) di usare la propria negatività per superare il trauma ed innescare con l’aggressore uno spietato gioco di redenzione e di ritorsione tra le parti, capace di arrivare dove lo spettatore non immagina. Sgombriamo il campo da ogni possibile illazione, il regista ha precisato se ce ne fosse bisogno, che la rappresentazione e lo sviluppo della storia non hanno nessun intento socio educativo o peggio esplicativo su come un evento così traumatico e violento andrebbe assorbito meglio. Verhoeven non emette giudizi, non punta il dito su nessuno, non cerca colpe sociali, porta alla luce un personaggio unico e particolare, immerso in una realtà estremizzata da fatti contingenti, il susseguirsi delle immagini e delle situazioni parlano da sole, sono in grado di ampliare, senza amplificare, il punto di vista per arrivare ad un epilogo giusto o sbagliato che possa sembrare. Può sorgere il dubbio se il soggetto si sia fin troppo adattato alla protagonista, una Isabelle Huppert simbolo algido del disincanto e dell’ambiguità, ma se si volesse costruire un triangolo ideale tra particolarità della storia e linea dissacratoria di Verhoeven, la presenza dell’attrice francese è il lato di chiusura perfetto. Per età, carattere, bellezza, invisibilità morale, la Huppert conferisce al film quella marcia travolgente che rende la vicenda quanto mai verosimile, capace di una resa vicina o addirittura superiore alla indimenticabile insegnante ne La pianista di Haneke. Non fosse proprio per il dettaglio fino in fondo realistico e pragmatico del personaggio di Michèle, quando invece la regia del maestro austriaco puntava tutto sull’estremismo psicologico della sua protagonista. In Elle affiora la violenza implicita delle relazioni umane, la spietatezza quotidiana, la rarefazione affettiva, tutti elementi che possono giocare a favore o contro la singola persona, mettendo però in conto quelle che sono le conseguenze secondo il possibile epilogo morale del regista. Michèle nella sua famiglia disgregata fa anche le veci maschili, quelle del padre, non solo con il figlio in procinto di sposarsi, ma anche con il resto degli adulti, infantilizzati nei desideri e nelle pulsioni. Sarà fondamentale la figura del padre della donna che vedremo solo in foto, che resterà centrale nella vicenda nel processo inconscio di rielaborazione che Michèle percorrerà. La bravura di Verhoeven sta proprio nell’amalgamare la traccia drammatica con il senso grottesco dell’esistenza che coinvolge tutti i personaggi, non a caso Michèle lavora in una casa di produzione di videogiochi, l’unico luogo dove la donna può manifestare al meglio la sua essenza, un posto immaginario dove si esprime la fantasia. Sarà proprio la dominante assurdità della commedia della vita a soppiantare tutto il resto, con la capacità della donna di minimizzare il dramma che la coinvolge fin da quando era bambina. A ben vedere saranno solo gli eventi a mutare, mentre Michèle li vivrà imperturbabilmente, l’unica variazione caratteriale avverrà solo quando decide di non poter più mentire a nessuno, cosa che porterà gli altri a maturare decisioni e posizioni importanti mentre ancora una volta la distaccata Michèle/Huppert si potrà permettere di osserverne le conseguenze.
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