Regia di Stephen Frears vedi scheda film
È noto: la bizzarra storia di questa temeraria signora tanto abbiente quanto stonata era già stata portata sul grande schermo da Xavier Giannoli con Marguerite, uscito appena un anno fa. Capita, per ragioni intriganti quando non oscure, che lo stesso soggetto venga affrontato da diversi autori nel medesimo momento. Ma proporre una lettura incrociata dei due film non rende giustizia né all’uno né all’altro. Florence, infatti, ha una sua peculiarità da ricercare nei talents impegnati nella sua realizzazione. Trova la sua coerenza nella politica registica dell’ultrasettantenne Stephen Frears, che nell’ultimo decennio ha frequentato il genere biografico una mezza dozzina di volte, affidandosi sempre a sceneggiature altrui.
Dall’apice The Queen al minimo The Program, pur nella fedeltà ai fatti, Frears sa di dover esaltare il romanzesco, la quota di finzione indispensabile per costruire uno spettacolo cinematografico. Scegliendo la donna come perno della narrazione, ha individuato nel contraltare maschile la misura per combinare il distacco all’empatia, la cifra per mai dimenticare la commedia in potenza, anche laddove la tragedia incombe (Philomena). Se un’affinità la si può riscontrare con Lady Henderson presenta, sia per la coppia singolare ed affettuosa formata da Judi Dench e Bob Hoskins che per l’attenzioone vagamente leziosa ad un décor comunque più che credibile, è per la celebrazione dell’ideologia dell’intrattenimento.
In questo senso è un film evidentemente inglese per approccio e gusto, un po’ accademico e ben confezionato (lodi alla costumista Consolata Boyle ma che noia le musiche del solito Alexandre Desplat), che forse proprio in virtù della sua estraneità sa dire qualcosa su quanto la società americana sia devota all’entertainment. Non a caso il devoto e fedifrago marito inglese è un attore forse cane e fallito, un corpo avulso dall’universo spettacolare americano per mancanza di talento ma anche di adesione spirituale (eccellente Hugh Grant in un ruolo per cui è nato). E non a caso la protagonista è Meryl Streep, la più grande attrice americana, geniale nel proporre una donna sgraziata nelle azioni e piena di grazia nell’anima, capace di non far affondare nel ridicolo un personaggio che una certa cultura europea preguerra avrebbe relegato alla buffa caricatura di una non-artista.
Se è vero che, citando Beethoven, una nota stonata è più accettabile di una cantante senza cuore, Florence è un fenomeno da baraccone che, benché l’ipocrisia del suo ambiente impedisca di schernire apertamente, trova involontariamente la sua forza nella reazione sorridente e lieta che suscita ad una nazione colta nella tragedia bellica. La sceneggiatura di Nicholas Martin riesce saggiamente a condensare nell’ultimo periodo di vita le coordinate di una vita sofferta ma immolata alla musica, sfiorando soltanto il patetismo della fine imminente nella cornice di un momento storico che, restando sullo sfondo, fa altresì percepire il tramonto di un mondo (l’aristocrazia borghese americana).
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