Regia di Garth Davis vedi scheda film
FESTA DEL CINEMA DI ROMA 2016 - SELEZIONE UFFICIALE
Come si fa a non rimanere inteneriti, commossi, alla vista di un bel bambino sperduto in una città tentacolare distante mille miglia dal proprio paese, inghiottito piano piano da un circolo vizioso di violenza in cui prima o poi chiunque finisce per soccombere?
La vicenda incredibile, vera, documentata, di un bambino di cinque anni che si perde di casa e, dopo mille vicissitudini, ha la fortuna di venire adottato da una amorevole famiglia australiana, così affettuosa da impedirgli moralmente di tradirla andando a ricercare le sue origini indiane se non dopo ben venticinque lunghi anni, ha tutte le carte in regola per entusiasmare la platea, che all'uscita dalla proiezione ufficiale qui alla Festa romana, applaude a scena aperta tra ovazioni e consensi.
Detto fatto, successo alle porte dopo il test romano che fa sperare in incassi importanti, dopo che il regista esordiente Garth Davis (notato dalla produzione dopo essere stato aiuto di Jane Campion nel suo Fortunato serial Top of he lake) usa - senza vergogna alcuna, né freno inibitore di sorta - tutte le precauzioni per riuscire - e ci riesce al 100% - nell'intento di confezionare un prodotto di successo.
Melodramma forte anche di un cast importante, studiato nei minimi dettagli per intenerire, indignare, dare speranza, e alla fine entusiasmare il pubblico, che, a quanto pare, abbocca alla grande e ci casca in massa: un bellissimo bambino si trova, per varie circostanze, solo ed intrappolato in un treno che lo porta lontano oltre 1500 km dal suo povero villaggio indiano natio.
Chiama a gran voce la mamma ed il fratello, come è naturale che sia, piange con dignità, cerca di arrangiarsi sfuggendo ai traffici più loschi ed orripilanti di una umanità che ha oltrepassato i limiti di bestialità concepibili.
Poi la via del riformatorio, poi la fortuna di venir scelto da una famiglia d'adozione in grado di portarlo lontano, al sicuro, ove ricominciare. Arriverà più tardi anche un altro fratellastro adottato, che naturalmente, a differenza sua, sarà disadattato e problematico, oltre che necessariamente ostile pure d'aspetto, mentre il nostro protagonista appare solare, disteso, bello come un Gesù Cristo, gentile e istruito, intelligente e sulla via della propria affermazione professionale. Con un solo cruccio che lo attanaglia e lo rende irrisolto: ritrovare le proprie vere origini ed i suoi cari, di cui conserva un preciso, positivo seppur lontano ricordo.
Google Heart lo aiuterà a trovare (strategia narrativa devastante) il suo sperduto villaggio di nascita, e la sua famiglia: ci vorranno venticinque anni, dopo crisi interiori, sensi di colpa, e difficoltà oggettivo-pratiche non indifferenti.
La felicità di ritrovare la mamma naturale si contrappone al dolore di una notizia tragica per quanto riguarda l'amato fratello.
L'alternanza tra dolore e gioia, pianto e contentezza, abilmente organizzati in una disposizione strategica, quasi matematica, rendono il film un prodotto acchiappa applausi che probabilmente, come preventivavamo poco sopra, bontà sua, riempirà le sale (guarda caso la scaltra distribuzione lo farà uscire, correttamente in termici commerciali, nel periodo delle feste natalizie).
Appare tuttavia lecito domandarsi una cosa: è giusto ingannare il pubblico coinvolgendolo in un ricatto emotivo di natura strettamente strumentale al successo del film? Non sarebbe più corretto e maturo raccontare le storie con meno attenzione alla superficie, agli atteggiamenti, agli alti e bassi, incentrando la storia su una struttura narrativa più matura e meno epidermica?
Lion sfrutta le sensazioni a pelle della gente e si (s)vende al sensazionalismo e alla lacrimevolezza di chi pensa che l'emozione superficiale possa giustificare la riuscita di un'opera.
La tattica di inserire a fine film le immagini dei protagonisti veri di questa straordinaria vicenda di vita, giuge, come già in molte altre opere, quasi a giustificare le scelte del film, come a cautelarsi verso i (pochi, siamo una mionoranza) scettici che tutta la melassa profusa nelle oltre due ore di pellicola ha delle basi certe e documentate. Coscienza sporca? Sensi di colpa? Nemmeno per sogno.
Anche l'ostinazione di rendere gli interpreti dei vari ruoli somiglianti agli originali, spinge ad assurdità che fanno sorriderer: provate ad osservare la Kidman, specie negli anni della giovinezza di Saroo, come è stata conciata, con quella parrucca mal riposta e quel rosso volpe che la rendono quasi una caricatura.
Sarebbe auspicabile, in casi del genere, più tatto, meno tattica, più ispirazione, meno calcolo.
Questo almeno il mio punto di vista.
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