Regia di John Schlesinger vedi scheda film
Cammina spavaldo con un solo obiettivo, il texano Joe: conquistare New York, o meglio, le mature e benestanti signore di New York. Il suo è una sorta di viaggio della speranza: l’illusione che la società del benessere investa anche la sua dimensione modesta lo esalta. Joe ha capito che può far quattrini servendosi della prestanza esuberante del suo corpo. Nella grande mela si respira l’aria straniante della fine delle feste, le luci e i colori sono quelli crepuscolari degli ultimi giorni dell’estate: solo Joe non si sta rendendo conto che il Sogno sta finendo. L’alba è arrivata, non è più tempo di fantasticare sul proprio futuro. L’ha compreso perfino Rico, un italoamericano, uno di quelli giunti nel nuovo continente proprio abbagliato dall’allettante Sogno.
Uomini da marciapiede, che si spostano stanchi e scoraggiati alla ricerca della luce del successo, inconsci di vivere nel sottobosco della natura umana, ben presto ricreduti dall’orizzonte dei piccoli eventi del quotidiano. Addobbarsi da cow-boy è una pagliacciata che non regge più. Essere un “magnifico stallone”, e dunque vendere la propria virilità, non può più essere una dimensione esistenziale nella quale si uniscono anche le esigenze sentimentali: il sesso è una merce di scambio screditata dai media che ne danno un’immagine falsata ed ebbra. L’unica cosa che Joe sa fare è fare l’amore, ma sa amare? Chissà, in fondo il suo conoscere New York (dunque la Città, e quindi l’America) è tutto un susseguirsi di delusioni e sberle in faccia: non può guadagnare solo col sesso, anche perché c’è una voce, dal lontano dei ricordi, che riecheggia irrequieta. L’amore abbandonato non può essere sostituto dal sesso mercificato. Disgiunzione e contrapposizione tra esuberanza del corpo ed angoscia inconsapevole dell’anima, Joe è proiezione del fallimento dell’illusione intensa come ineludibile passaggio per arrivare alla felicità.
Impregnato in un’amarezza che sconfina in una sorta di grottesca e sottile accusa al mondo circostanze, Un uomo da marciapiede è soprattutto la storia di un’amicizia che cresce a poco a poco, un rapporto in cui l’uno è in funzione dell’altro e l’uno assicura all’altro una ragione per vivere il contemporaneo. I sapori di un mondo allo sbando risuonano con prepotenza in ogni angolo della città ingannatrice. La visita al cimitero dalle lapidi innalzate verso l’altro, avvinghiate in un cupo assemblaggio, è la simbolica predestinazione immediata del destino di un Paese e dei suoi abitanti. Dal comparire delle visioni allucinogene durante la festa decadente, il film comincia ad intraprendere una strada più risoluta verso una qualche speranza nel futuro, in cui poter finalmente mettere da parte l’estremismo esistenziale e non continuare la propria discesa agli inferi. Sempre più giù, più giù, e ancora più giù.
E la violenza del prefinale, gratuita e spietata, non può non rappresentare un punto di non ritorno: saturo delle bugie del mondo che aveva sempre sognato, Joe esplode, e poi decide di cambiare nuovamente vita. Non è così – ma fino ad un certo punto – per Rico, costretto ad abbandonare il palcoscenico dopo aver rivestito il ruolo di inquieto cicerone e frustrato derelitto. L’imborghesimento di Joe si accompagna alla scomparsa dell’amico: è un finale che, seppur intriso di una patetica tristezza, si apre ad una diversa esplicazione sociale. Forse non tutto è perduto, anche perché la speranza è sempre l’ultima a morire. Indimenticabili sia il duetto attoriale di Dustin Hoffman e Jon Voight che la colonna sonora ormai iconica, come la regia livida e allucinata del magnifico e dimenticato John Schlesinger.
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