Regia di Dziga Vertov vedi scheda film
Un film privo di commenti verbali, in cui sono solamente le immagini a parlare. Non ci sono battute o sottotitoli ad interrompere il flusso del visibile, che vive interamente, ed autonomamente, nel nostro occhio come nell’obiettivo. La sostanza del cinema coincide con questa inscindibile materia percettiva; non è dunque possibile distinguere tra un dentro e un fuori, perché tutto, cineoperatori, montatori, proiezionisti, spettatori, pellicola e grande schermo sono immersi nella stessa immensa e multiforme realtà filmabile. Il movimento che appare innanzi a noi non è quello di una bobina che si srotola, bensì quello che fotografa i processi che avvengono nel mondo, in cui si compie il divenire delle situazioni (una città addormentata e deserta che poco a poco si sveglia e si rianima), l’avanzare dei mezzi di locomozione (l’avvicinarsi di un treno in corsa, un viaggio in auto), l’operare dei meccanismi produttivi (il funzionamento delle macchine industriali), il dispiegarsi delle armonie dinamiche (il gioco di muscoli degli atleti in gara). Di questo sistema cinematico fa parte anche il percorso secondo cui la macchina da presa decide di esplorarlo: le direzioni e le velocità con cui essa attraversa il panorama, le angolazioni e le distanze di ripresa sono anch’esse tra le variabili del grande moto universale in cui la settima arte isola e rielabora, tramite la tecnica, uno degli infiniti itinerari visivi. Il cinema, dunque, non riproduce il moto, né, tantomeno, lo crea in laboratorio; invece vi partecipa, perché vi sta nel mezzo, col corpo e con la mente dell’uomo con la macchina da presa, che cammina, cerca, guarda, raccoglie, ricorda, riflette e, infine, generosamente restituisce.
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