Regia di Dziga Vertov vedi scheda film
La "decodifica della vita così com'è"
Nel 1929, data di uscita del film di Vertov, il pittore suprematista sovietico Klazimir Malevich così diceva:
“Dziga Vertov si sta muovendo inesorabilmente verso una nuova forma di espressione per il contenuto contemporaneo, perché non dobbiamo dimenticare che il contenuto della nostra epoca non può essere ridotto a mostrare i maiali che vengono ingrassati in una fattoria sovietica o i "campi di grano d'oro" che vengono raccolti. C'è ancora un altro contenuto: quello della forma pura e dinamica”.
Che, in altre parole, è quello che già affermava nel 1915:
“Desideriamo formarci secondo un nuovo modello, progetto e sistema; desideriamo costruire in modo tale che tutti gli elementi della natura si uniscano all'uomo e creino un'unica immagine onnipotente. Con questo scopo il principio economico ci guida lungo il suo cammino e raccoglie tutte le vite che sono state disperse nel caos della natura, separate e isolate, unendole nel suo cammino: così ogni personalità, ogni individuo, un tempo isolato, è ora inglobato nel sistema di azione unita.
…L'essere contemporaneo dell'uomo moderno tende a un'unità che spezzi i confini tra gli orti nazionali, chiamando tutte le nazioni a un unico polo, affinché nell'unità possano creare l'immagine di tutta l'umanità …
Ora solo lui - l'uomo - come centro può trasformare la natura in un'altra nuova immagine, che non sarà altro che l'uomo stesso: un passo compiuto sulla via eterna.
Un tempo l'arte si basava sulla bellezza artistica, ma ora dobbiamo intraprendere il percorso puramente creativo del movimento economico.
Questa è l'unica strada di sviluppo per tutta l'umanità e da essa derivano tutte le forme che sono internazionali: l'auto, l'aereo, il telefono, la macchina, ecc.
La diffusione di questa concezione tra le persone e la sua introduzione nel canale delle invenzioni creative formano un'unità mondiale. Economia in movimento è uguale per tutti. ... Sappiamo già che ogni aspetto della nostra vita è basato sull'economia della sussistenza e del movimento in generale, da cui derivano la politica, i diritti e la libertà." —
Kasimir Malevich, The Question of Imitative Art, 1915
L’attualità di queste parole sembra evidente ancora un secolo dopo, ma lo stesso secolo ha dimostrato quanto sia stato difficile, se non impossibile, tradurle in realtà.
Erano anni in cui si era ancora disposti a credere, a non considerare utopia l’utopia, anche se i segnali erano allarmanti e non fu solo Majakovskij, il grande ragazzo di Bagdati, blusa gialla e sigaretta sempre a metà, a capire e lasciar scritto: “Non consideratemi un pusillanime. Davvero non c’è più nulla da fare”.
E il 14 aprile 1930 uno sparo chiuse la partita nella piccola stanza della komunalka, al numero 15 di vicolo Gendrikov a Mosca.
Solo un anno prima David Kaufman, in arte Dziga Vertov, “la trottola”, girava L’uomo con la macchina da presa, “ un esperimento di trasmissione cinematografica di fenomeni visivi… senza didascalie… senza sceneggiatura… senza scene, attori, ecc.”, evocazione caleidoscopica della vita in diverse città sovietiche, in particolare Odessa. Strade invase da gente alacre, tram che s’incrociano sui binari, carrozze e carretti, negozi aperti, cinema e case del popolo, bambini sorridenti, il sole che splende.
Alla fine degli anni '20 l’aria che si respirava era dunque ancora respirabile, o forse ci si illudeva.
Anche Majakovskij, il “fragile gigante della rivoluzione”, aveva visto nel cinema il presente e il futuro, il luogo d’incontro di linguaggio e tecnologia, lo shock estetico necessario.
Manipolare il tempo, graffiarlo, raccontare con immagini in movimento cose, fatti, persone riprodotti dalla realtà o creati dalla fantasia, inventare col montaggio un linguaggio mai usato.
Rivoluzione, dunque.
E lo gridò:
Per voi il cinema è spettacolo.
Per me è quasi una concezione del mondo.
Il cinema è portatore di movimento.
Il cinema svecchia la letteratura.
Il cinema demolisce l’estetica.
Il cinema è audacia.
Il cinema è un atleta.
Il cinema è diffusione di idee.
Ma il cinema è malato. Il capitalismo gli ha gettato negli occhi una manciata d’oro.
Abili imprenditori lo portano a passeggio per le vie, tenendolo per mano.
Raccolgono denaro, commovendo la gente con meschini soggetti lacrimosi.
Questo deve aver fine…
Vladimir Vladimirovic Majiakovskji, Cinema e cinema, Mosca 1922
Vertov sopravvisse, benchè inviso alla nomenklatura e non capito in gran parte del mondo.
Oggi è al primo posto nelle classifiche di Sight & Sound sui più grandi documentari.
In bilico sul fianco di una macchina in corsa, arrampicato sulla sommità di un silos, in equilibrio precario sulla spalletta di un ponte o nella carrucola di una gru sopra le cascate, stretto tra due file di tram, sempre in corsa col treppiede e la macchina in spalla, Vertov mostra le cose come entità reali, le immagini come immagini, ma le ricolloca continuamente, le orienta in mille modi diversi, quello che resta sono le relazioni fra le cose, non le cose.
Una sinfonia della città.
Walther Ruttmann (1887-1941), nove anni prima l’aveva scritta su Berlino, Berlin, die Symphonie einer Großstadt, routine quotidiana della città di Berlino alla fine del 1920.
Sull’altra sponda dell’Oceano Buster Keaton l’anno prima aveva giratoThe cameraman: sembrano fratelli di latte, lui e Dziga, stessa carica eversiva, stesso senso del ritmo, un occhio sempre attento all’armonia dell’insieme, ma l’America racconta una storia, l’Unione Sovietica le racconta tutte all’unisono.
Il cavalletto è lo stesso, prende corpo e anima, la testa è la macchina da presa, in simbiosi totale con l’uomo.
La corsa vertiginosa delle immagini si placa all’improvviso, poi riprende, scorre la vita ed è fatta di tanti pezzettini che si sovrappongono, si giustappongono, l’ipnosi per chi guarda è totale, non si riesce a smettere di guardare.
E, del resto, quando smettiamo di guardare la vita che scorre con migliaia di fotogrammi al secondo e tutti carichi di vita propria?
Un treno che corre (omaggio ai Lumière?) e un occhio che guarda, arriva la Fine.
Sessantasette minuti, un restauro magistrale, un’avventura dello sguardo e della mente.
Quartieri di geometria modernista industriale e strade old style, un ritratto di Lenin che appare solo una volta, cavalli da tiro e auto fiammanti, sartine al lavoro in casa e operaie in fabbrica, masse di gente al mare (e lì Vertov non resiste e fa un bagno anche lui), qualche intenso primo piano di facce rugose e abbronzate, il lavoratore sovietico nel suo splendore.
Ma nessuna propaganda, solo una capacità immensa, pionieristica, di aprire strade nuove al cinema e al suo senso.
E tutto a soli trentaquattro anni dalla sua invenzione.
La "decodifica della vita così com'è" la definì l’autore "Il mio film significa lotta tra visione quotidiana e visione cinematografica, la lotta tra spazio reale e spazio cinematografico, la lotta tra tempo reale e tempo cinematografico".
La distinzione classica della vita reale oggettiva e la resa soggettiva di un artista è superata.
La verità è l'immagine come immagine, i modi in cui può essere collegata ad altre immagini, le loro relazioni.
Ma la verità dell’immagine è un’illusione, la sua forma e il suo movimento sono il trucco creato dall’artista.
Collaborarono all’impresa la moglie e montatrice Yelizaveta Svilova e suo fratello, il cameraman Mikhail Kaufman.
In primo piano appaiono spesso loro e tutto l’apparato di proiettori, bobine e pellicole, un vero work in progress che in questa edizione è accompagnato dalla musica di Michael Nyman.
La ciliegina sulla torta!
www.paoladigiuseppe.it
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