Il cinema degli albori e l'emozione del movimento.
L'uomo con la macchina da presa estrinseca l'estasi per la conquista del movimento naturale, esaltandone i dettagli, che diventano veri e propri giochi di prestigio e magie di coordinazione e prestazione atletica a disposizione dell'occhio osservatore del mezzo filmico.
Il portale per cinefili Mubi rende disponibile finalmente questo gioiello dei tempi del muto.
Si tratta di un ardito documentario risalente al 1929, girato da uno dei padri e teorici più affermati del cinema russo, ovvero il sovietico Dziga Vertov.
Dalle prime luci dell'alba, ininterrottamente sino al diffondersi delle ombre che preannunciano il tramonto, un infaticabile cineoperatore si impegna a riprendere con zelo e tecnica ardita le scene di vita che gli si presentano dinanzi lungo le vie un po' caotiche e via via sempre più affollate di una brulicante Mosca attraversata da tram e treni in corsa.
Le prime immagini si aprono sulle immagini di una sala cinematografica ancora deserta, man mano si riempie di spettatori, e al termine il film torna nella medesima sala, ove la macchina da presa pare abbia imparato a muoversi autonomamente senza l'operatore che si occupa di dirigerla e posizionarla.
"Io sono un occhio. Un occhio meccanico e sono in costante movimento!"
Nel film virtuoso e tecnicamente eccezionale del padre del cinema russo Dziga Vertov, si rende omaggio all'estasi del movimento, attraverso l'esaltazione della frenesia e del processo congiunto, tra meccanica e fisica, in cui sia il corpo fisico, sia quello meccanico, si coordinano a seguito di sforzi fisici e coordinazione nella progettazione e costruzione dei meccanismi.
La macchina da presa serve a esaltare i risultati di coordinazione prodotti da questo sforzo, sia fisico che mentale, e la perfezione della tecnica di ripresa induce la macchia stessa a diventare un essere pensante, raziocinante, in grado di gestirsi e muoversi secondo un proprio arbitrio, fino a provare pure lei la tentazione vanitosa di farsi riprendere.
Il regista e teorico di cinema russo nato a fine '800 e vissuto al tempo dei primi bagliori cinematografici, celebra con questo suo esagitato documentario, la summa della cosiddetta teoria del "cineocchio" (dal film di Vertov stesso del 1924), i cui sostenitori promulgavano la convinzione della superiorità del cinema documentaristico su quello di finzione, giudicato inadatto ai fini della formazione di una società di stampo orgogliosamente comunista.
Il cinema di quei primi anni Venti, era considerato dai fautori del culto de Il Cineocchio, come tecnica futuristica da utilizzare come strumento al servizio della società, del popolo, mentre la finzione rischiava di ridursi a strumento borghese con cui questa casta tentava di incantare e sottomettere quella operaia.
Pertanto quella che interessa, a Vertov e al suo cinema, è solo la verità, quella che si coglie direttamente ponendo la cinepresa a contatto con il mondo che vive, senza edulcorarne o falsarne il corso e gli sviluppi con falsificazioni narrative fuorvianti.
Sia come si vuole, la tecnica di ripresa del talentuoso Vertov si snoda tra riprese acrobatiche e scene movimentate, ove nulla servono tendenziosi interventi di fantasia o narrativamente costruiti ad arte per rendere più fluido e affrontabile il racconto che emerge dalla semplice osservazione dei fatti reali.
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