Regia di Dziga Vertov vedi scheda film
Un'enorme macchina da presa su cui si erge faticosamente un cineoperatore, avente a sua volta in mano un'ulteriore macchina da presa con tanto di treppiedi. La grande montagna dell'ultimo ritrovato della tecnologia, che da poco più di 30 anni, ha cambiato radicalmente le abitudini dell'essere umano, nei confronti della realtà, diviene oggetto di faticosa conquista, per ri-fondare il cinema sulle sue vere origini; il documentario, che per Dziga Vertov era nettamente superiore al cinema di finzione, oramai affermatasi da anni.
L'Uomo con la Macchina da Presa (1929), è un punto di arrivo, più che di partenza, per il movimento teorico del "cineocchio" di cui Vertov era portabandiera da poco meno di 10 anni, girando un film che riflette sulla combinazione dell'occhio umano, con quello dell'obbiettivo della cinepresa, in un continuo gioco di rimandi, sguardi e riflessi, accentuati dal fatto che l'operatore "protagonista" dell'opera, - Mikhail Kaufman, fratello del regista -, venga a sua volta continuamente ripreso nell'atto, dalla camera di Vertov, in un'avvicendarsi di immagini, che giocano a rincorrersi tra loro, nell'inquadrare la realtà filmata, secondo lo sguardo del cineoperatore.
Privo di colonna sonora all'epoca, - il regista non diede alcuna indicazione in merito, le edizioni moderne sono tutte musicate, quella del sottoscritto aveva la colonna sonora eccellente di Michael Nyman del 2001 -, senza alcuna didascalia e soprattutto, senza un focus narrativo organico, che non sia quello di seguire il cineoperatore nelle strade di Mosca, nell'atto di riprendere i più svariati avvenimento quotidiani, Vertov sancisce la sua fede nello strumento della macchina da presa, come mezzo per creare immagini che non necessitano di alcun supporto "letterario", vista la loro autonomia intelligibile; un discorso per l'epoca in cui venne realizzato il film, totalmente folle, ma assolutamente necessario per dare l'emancipazione dovuta ad una settima arte, basata su un linguaggio visivo e non scritto, radicalmente differente da ogni altro.
La sala è il luogo preposto alla visione delle opere cinematografiche, primo ed ultimo luogo su cui ci si sofferma l'opera; un posto "sacro" dove le immagini prendono forma sul grande schermo, in uno dei primi giochi meta-cinematografici della storia del cinema, essendo a nostra volta spettatori, come lo sono le persone, in attesa di assistere alla proiezione di tale lavoro, incentrato su 24 ore di vita quotidiana della cittadinanza russa, inquadrate dal cineoperatore nelle più svariate attività giornaliere.
Ascritto al genere documentario tout court, in realtà il movimento del "cineocchio" per come inteso da Vertov, è una corrente teorica che và oltre la ripresa di ciò che avviene, poichè si fà portatore di una fusione bio-organica tra l'occhio umano con l'obbiettivo della macchina da presa, in una nuova sinergia tra carne-macchina, capace di inquadrare una realtà, che al momento della proiezione assume, la forma plasmata secondo l'occhio dell'artista. La macchina ci restituisce l'immagine, ma essa è soggetto alla volontà del cineoperatore, che può piegare essa al suo modo di vederla, sfruttando la macchina da presa per compiere delle inquadrature ardite.
L'operatore si svincola del tutto dai canoni del cinema classico, dove l'inquadratura deve essere la più neutra possibile per l'occhio umano, sgambando le riprese, usando primissimi piani, sfruttando rudimentali carrelli tramite il posizionamento del mezzo su una macchina in corsa, totali dall'alto realizzati tramite carrelli appesi su dei cavi, nonchè ardite inquadrature dal basso su un treno che passa, poggiandosi sui binari, rischiando a momenti la morte, per riprendere la vita frenetica, dell'odierna società dinamica, dai ritmi velocizzati, dalle catene di montaggio, dove il lavoro umano viene velocizzato dai frame al pari di quello forsennato dei macchinari dell'industria, in un processo di logoramento disumanizzante, a cui però Vertov contrappone i benefici ristori garantiti dalla società comunista, con le gite fuori porta, tra bagni di fango rilassanti e la cura del corpo, con tanto di anticipazione dell'Olympia di Leni Riefensthal (1938), nei momenti dedicati al corpo degli atleti nell'atto di svolgere l'esercizio fisico, di cui viene esaltata la potenza tramite la tecnica del "rallenty", usata in modo sensato e non tanto per fare scena; su tutti se ne giova il portiere di calcio, nell'atto di compiere una difficile parata su un tiro insidioso, - che Vertov sia in effetti il colpevole la moviola calcistica, con cui dopo quasi 100 anni le trasmissioni calcistiche ci rompono gli zebedei, per ben 2/3 dell'anno senza mai ovviamente giungere a nulla -.
Originale nelle inquadrature, filtrandole secondo la sua visione, senza però modificare la realtà, ma solo per accentuare la forza delle immagini, Vertov cura egli stesso il montaggio, che per l'epoca contiene una quantità spropositata di soluzioni, tra sovraimpressioni, doppie esposizioni, ripetizioni, analogie - nascita di un bambino con la morte di un uomo -, divisioni dello schermo (split screen) e così via, inserendo un numero spropositato di frame, che si avvicendano ad un ritmo sempre più forsennato nel finale, in un continuo virtuosismo avanguardistico, oggi in effetti un pò "invecchiato" a vedersi, ma di assoluta unicità per l'epoca. Un'opera artistica bizzarra, lirica, poetica ed ermetica, per lo più incompresa all'epoca per l'assenza di una narrazione lineare quanto criticata per il montaggio incalzante, che non permetteva secondo i critici di assaporare ciò che accadeva sullo schermo, bisognerà attendere la fine degli anni 50' e l'inizio dei 60', con l'emergere delle nuove avanguardie cinematografiche, per avere una rivalutazione di un'opera, giunta nell'ultima classifica stilata da Sight and Sound all'ottavo posto dei migliori film della storia del cinema.
Film aggiunto alla playlist dei capolavori del cinema : //www.filmtv.it/playlist/703149/capolavori-di-una-vita-al-cinema-tracce-per-una-cineteca-for/#rfr:user-96297
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