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L'uomo con la macchina da presa

Regia di Dziga Vertov vedi scheda film

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La recensione su L'uomo con la macchina da presa

di (spopola) 1726792
10 stelle

Dziga Vertov aveva sicuramente pensato alla realizzazione di un film dedicato al linguaggio del cinema fin dagli inizi degli anni ‘20.  Lo si può dedurre dal fatto che il tema della dialettica cinema-realtà è sempre stato presente nei suoi scritti teorici, anche in quelli che precedono la realizzazione de L’uomo con la macchina da presa che è del 1929.

Il film vuole essere prima di tutto il resoconto della giornata di un operatore cinematografico (Michajl Kaufman, fratello del regista): questa è almeno la linea narrativa che  a un primissimo livello di lettura possiamo cogliere dalla “straordinaria esperienza visiva”, che rappresenta per lo spettatore il percorso narrativo dell’opera, la cronaca del suo vagabondare per la città alla ricerca di materiali da riprendere (il risveglio, il traffico per le strade della città che esplora, il lavoro, la nascita, la morte, lo sport, il divertimento).

Come l’avvertenza iniziale spiega (“si fa presente agli spettatori che questo film è un esperimento di trascrizione cinematografica dei fenomeni visibili, senza didascalie, scene, teatri di posa”, le intenzioni dell’opera consistono proprio nel cercare di creare un linguaggio cinematografico assoluto, autenticamente internazionale, sulla base di una piena separazione dal linguaggio della letteratura e del teatro, ed è per questo evidente che le tracce minimali della “storia” che il film racconta, valgono soprattutto a precisare che l’oggetto di questo linguaggio vuole essere “semplicemente” l’operazione stessa del fare cinema, di agire cioè, nella realtà e sulla realtà per mezzo di un determinato strumento (che nel caso specifico è rappresentato appunto dalla macchina da presa).

Il campo di indagine del film, allora, non è “solo” il linguaggio cinematografico, ma si estende anche – e soprattutto a questo risulterà prioritariamente orientato –  a definire e illustrare la pratica (anche linguistica, ma non solo linguistica) di chi il cinema lo fa,  è il rapporto fra cinema e realtà che ne deriva appunto, e di conseguenza, quello tra cinema e storia, che ancora più importante. Senza dimenticare poi che le immagini di Kaufman, colto mentre esercita il suo mestiere di operatore, sono pur sempre immagini di cinema: c’è una seconda cinepresa infatti che lo segue passo per passo, e la sua presenza è esplicita.(anche se non completamente definita negli inenti).

Difficile dunque contenere dentro una poetica unitaria ed univoca il più celebre e celebrato risultato dello straordinario percorso teorico-artistico di Dziga Vertov: i temi sono molteplici, come quello costruttivista-futurista della scomposizione e ricostruzione della realtà – senza filtri razionali o emotivo o linguistici - attraverso una macchina da presa nel cuoi obiettivo si sovrappone – ed è significativo ed importante elemento identificativo – l’immagine di un occhio che a sua volta “guarda” e osserva (celeberrime le inquadrature inclinate e lo schermo diviso in due di un’opera che intende “ricomporre” in maniera diversa ciò che ha ripreso e mostra, attraverso le risorse  dei nuovi moduli linguistici che il cinema rende disponibili: ritmi, spazio, tempo, angolazioni, montaggio). Ci sono però anche straordinarie riflessioni sulla fabbrica delle immagini (l’utilizzo “magico” delle sovrimpressioni, delle dissolvenze incrociate, il movimento rovesciato dell’immagine) e sull’illusione cinematografica tout court, mischiate però a  singolari e un po’ curiose divagazioni che soprattutto adesso possono apparire un po’ troppo “estetizzanti” ed abusate (i ralenti degli atleti per esempio) ma che allora erano assolute novità, e soprattutto a corpose parentesi documentaristiche davvero poco “celebrative” capaci di fotografare e di mettere in piazza una impietosa e poco edificante realtà (i senzatetto che si trovano costretti a dormire per la strada), oltre a qualche piccola tentazione voyeristica.

Si è trattato dunque per il regista di applicare al cinema quel programma di costruzione della vita che era dei costruttivisti della LEF: non per nulla il proposito è subito chiarito in apertura con la presentazione di una cabina  di un cinema e della sala vuota che di colpo, come per un magico incanto, si riempie di spettatori; e non casualmente sarò proprio la sala del cinema piena di gente, che tornerà alla fine, per suggellare e concludere le avventura dell’operatore e del suo giro per la  città.

Un film importante e fondamentale anche per la evoluzione del linguaggio, dunque che – come giustamente ricorda il Morandini – sequenza dopo sequenza, in anticipo di quasi mezzo secolo sui film strutturalisti degli anni ’60 e ’70, rivela l’artificiosità del mezzo cinematografico, distruggendo la disponibilità dello spettatore all’identificazione, alla partecipazione emotiva (…) Il cui risultato finale è un attacco all’illusione dell’arte e all’arte come illusione..

Distribuito quando ormai Stalin aveva consolidato il suo potere,  fu ingiustamente osteggiato all’epoca  come esercizio formalista “fine a se stesso”, nel tentativo evidente di annullare  - disconoscendola e negandola  - la carica eversiva dell’opera e le implicazioni antitotalitarie dell’estetica vertoviana così scomoda al regime, tanto è vero che pochissimi anni dopo, quando ormai era strato codificato dall’altro il “modello” intoccabile del realismo socialista, Vertov fu del tutto emarginato.

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