Regia di Valérie Donzelli vedi scheda film
"Cosa siamo noi?"
"Siamo qualcosa che non esiste"
"Allora va tutto bene, non rischiamo nulla se non esistiamo".
Sembra che Valerie Donzelli, già autrice de La guerre est declarée, abbia assunto questo scambio di battute come formula base del suo ultimo film, Marguerite e Julien, presentato a Cannes 68 in concorso e come film di apertura del sesto Sicilia Queer FilmFest a Palermo. Il quarto film della regista francese è ancora una volta imperniato su uno scarto netto fra contenuto e forma, un gap significativo che qui è apparentemente colmato dalla piattezza plastificata di talune immagini (e dalla maniera di tal'altre), ma che è in realtà nullo non perché contenuto e forma coincidano, cosa che riesce meglio ad autori di ben altra integrità, ma perché il contenuto è visibilmente, chiaramente, sfacciatamente pretestuoso. Eppure ha un ruolo fondamentale. La formula della Donzelli sembra essere quella di raccontare storie ad alto rischio di patetismo in modo vivace, "libero", in fin dei conti frivolo, sfidando gli standard visivi (ma di chi?, del grande pubblico?). Neanche un'accozzaglia di vezzi fini a se stessi, ma uno svilimento dello strumento Cinema nel suo presentarsi come forma, appunto, di libera narrazione visiva. L'entusiasmo de La guerre est declarée, che rendeva il film semplice, diretto, ben più rischioso in quanto coinvolgeva l'attrice-regista in prima persona, diventa in Marguerite e Julien l'ingenuità del principiante, quasi come se questo film fosse un'opera prima.
Il rischio, in Marguerite e Julien, sta altrove: nello scomodare giganti della cinematografia, non solo tramite gli ovvi riferimenti visivi (che non tarderemo ad elencare), ma anche nella genesi dell'opera in questione. Tratta da un'idea di Jean Gruault, storico sceneggiatore di François Truffaut, la trama riadattata da Valerie Donzelli appare come un lungo gioco su una cosa seria. Non un ludus gomesiano visto con sguardo algido e attento, ma tutto l'opposto; il gioco è qui la forma, non l'azzardato contenuto come nelle opere di Miguel Gomes. Sfiancando le tecniche filmiche con carrelli spasmodici, sovrapposizioni di piani, ralenti, i "tondi" che fanno tanto 'citazionismo da Nouvelle Vague', e addirittura un'intera sequenza raccontata tramite foto alla maniera markeriana, la Donzelli agisce come un bambino che ha scoperto la grammatica e decide di proferire parola. Non è però un partito preso, una posizione volontaria; è il risultato di svariate inconsapevolezze. E' volontaria l'idea di allontanarsi, schematicamente, dai personaggi (Anais Demoustier e Jeremie Eilkam prestati a dinamiche umane elementari), non problematizzandoli; azzardata è l'idea di farlo con un soggetto di matrice gruaultiana-truffautiana, dunque un soggetto profondamente umano, nonché letterario, nella migliore tradizione di regista e sceneggiatore de Adele H. Come negare infatti che la Donzelli faccia riferimento alla filmografia del grande Truffaut (L'argent de poche, a sua volta splendidamente vigo-iano) quando immagina la cornice del suo Marguerite e Julien come il racconto che fa una ragazzina ad altre compagne di dormitorio. La Donzelli forse sa che il suo film è un giochetto: spesso le sue immagini e i suoi personaggi ricalcano quelle ombre cinesi che la ragazzina suddetta usa per narrare alle compagne più piccole la storia tragica di fratello e sorella incestuosi.
Però, ed è un grosso però, il Cinema concepito come catalogo di suggestioni malickiane (il finale) e addirittura mizoguchiane (Gli amanti crocifissi) e hanekiane (Amour) finisce così per essere ridotto a un spicciolo passatempo. Vorremmo dire che la Donzelli ha solo mostrato cosa tecnicamente sa fare, e saprà usufruirne per creare ben di meglio in futuro; eppure Marguerite e Julien odora di pericosolamente definitivo. Un film tanto esile che non esiste.
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