Dopo aver conosciuto un’età dell’oro nel secolo scorso, l’amore con i suoi molti crucci è diventato un tema inviso alla maggior parte dei registi e, tranne casi isolati, chi decide di occuparsene lo fa attraverso una sterile ripetizione degli stilemi tipici della cinematografia sentimentale. Nelle mani di costoro, la tenzone amorosa con le sue mille incomprensioni non riesce mai a elevarsi a vita vera ma rimane incapsulata in una dimensione da catalogo pubblicitario. In questo senso, Emmanuel Mouret rappresenta un’eccezione: un po’ perché dell’argomento in questione il regista francese è un esperto in materia per avervi dedicato l’intera filmografia; un po', e qui entriamo nello specifico della nostra riflessione, per quelle caratteristiche che sono usuali del suo cinema e che “Caprice”, il suo ultimo film presentato in anteprima nell’ambito della rassegna Rendez Vous – appuntamento con il nuovo cinema francese, riassume in maniera esemplare a partire dai canoni espressivi. Che, riguardano prima di tutto il lavoro operato dal regista sulla messinscena, frutto di un controllo formale – sulla recitazione e sulla composizione delle singole immagini - che si riversa sullo schermo con una naturalezza che ricorda alcuni dei maestri della nouvelle vague – da Truffaut a Rohmer - e che potrebbe trovare un corrispettivo nei lavori del grande Woody Allen, al quale l’accomuna soprattutto l’importanza e la qualità della scrittura che però, nei film del regista francese, procede a ritmo più pacato e con un tono letterario che deriva non tanto dalla ricercatezza dei dialoghi quanto dalla pulizia della struttura.
“Caprice” ne è un esempio illuminante perché, a fronte di un intreccio che alla maniera di altre prove del regista - in primis di “Cambio d'indirizzo” - ci presenta un carattere maschile innamorato di due donne che rappresentano con le rispettive peculiarità - una eterea e raffinata, l'altra estroversa e terrena - un modello femmineo a se stante, a fare la parte del leone sono i personaggi con i tic e le psicologie del caso e appunto le conversazioni scaturite dalle schermaglie amorose con cui ognuno di loro sublima la mancanza del proprio corrispettivo. In più, innescando un processo d’astrazione che riguarda tanto gli ambienti, trasformati in non luoghi sia che si tratti di contesti famigliari che di spazi pubblici, quanto i tipi umani, tratteggiati con caratteristiche più ideali che concrete (a parte la carnalità lasciata fuori campo a dirlo è anche la nettezza degli atteggiamenti), Mouret arriva al punto di ciò che gli sta più a cuore, vale a dire l'espressione non solo degli esiti contingenti di ciò che racconta ma in particolare la rappresentazione del tormento e dell’estasi che lambisce da sempre lo smarrimento della tenzone amorosa. Se il meccanismo funziona nel senso che abbiamo detto l'altra parte del merito va ascritta alla direzione degli attori e alla qualità interpretativa degli stessi, tra cui vogliamo citare Virginie Efira e Anais Demoustier.
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