Regia di James Franco vedi scheda film
Il confine che divide un sogno da un incubo è più sottile di quanto normalmente pensiamo. Lo stesso dicasi per il successo e la deriva, così come per un amore genuino e uno ossessivo. D’altro canto, se per arrivare a ottenere una conquista occorrono tempo e perseveranza, per ritrovarsi spiaggiati basta un attimo, un colpo di sfortuna o, più semplicemente, un’azione avventata che pregiudica quanto costruito, cambiando inesorabilmente il verso del destino.
Con Zeroville, James Franco esonda. Racchiude questi punti dalla soglia variabile in un viatico travagliato e multiforme, che si addentra nell’essenza stessa della vita passando dal cinema, scandagliato con un citazionismo sfrenato e una passione che traspare a chiare lettere da ogni dove.
Los Angeles, 1969. Vikar (James Franco) giunge a Hollywood per diventare scenografo, ma quando incontra Dotty Langer (Jacki Weaver) passa con successo al montaggio.
Inizialmente, collabora proficuamente con Viking Man (Seth Rogen) ma ben presto la sua attenzione è calamitata da Soledad Paladin (Megan Fox), finendo per innamorarsi perdutamente.
Quando ogni cosa pare arridergli, accetta di collaborare con Rondell (Will Ferrell), un produttore opulento, abituato a ottenere tutto ciò che desidera.
Da questo momento, Vikar finisce incagliato in una spirale regressiva che lo annienta un pezzo alla volta, nonostante l’affetto per Zazi (Joey King), la figlia di Soledad, gli fornisca stimoli consistenti.
Zeroville testimonia una volta di più - e all’ennesima potenza - l’anima artistica irregolare, funambolica e imprevedibile di James Franco. Un formidabile eclettismo che, nell’arco di pochi anni - in alcuni casi parliamo di mesi, per non dire settimane -, l’ha visto passare dalla riduzione di grandi romanzi (In dubious battle) alle commedie demenziali (Proprio lui?, Sua Maestà), dal thriller (Good people) al dramma (Third person), dai blockbuster (Il grande e potente Oz, L’alba del pianeta delle scimmie) a pellicole minuscole (Palo alto), dalle serie televisive (22.11.63, The Deuce – La via del porno) ai grandi autori (Queen of the desert, Ritorno alla vita). Passaggi repentini, dettati da un ego irrequieto e da un innato amore per il cinema, espletato con ottimi riscontri in The disaster artist. Un film che con Zeroville ha molti punti di contatto ma anche una visuale più ristretta.
Di fatto, questa volta James Franco è più accentratore che mai e spalanca il compasso a dismisura, lo stressa fino ad arrivare all’apoteosi delle più estreme conseguenze.
In principio, piomba nello stesso periodo di C’era una volta a… Hollywood ma poi volteggia negli anni e aggiunge aspetti fuori tempo. Sfoggia senza alcuna ritrosia la sua vocazione cinefila per poi forgiarla con una passione incontenibile, resa in maniera incontrovertibile mediante gli occhi di Vikar, dai quali traspare lo stupore, il senso di meraviglia che (solo) il cinema riesce a regalare.
Similmente, la transizione contamina i generi, si catapulta da uno stadio all’altro senza soluzione di continuità, con congiunzioni multiple e grumi meta cinematografici, denotando una conoscenza anatomica del mezzo registico, dell’ambiente che draga e, più in generale, della cinematografia (James Franco l’ha assorbita come una spugna), con alcune postazioni privilegiate (Un posto al sole e La montagna sacra) e un pozzo di nozioni che si spinge in più direzioni, generando un flusso, direzionale per tenore (si sale velocemente per poi scendere a rotta di collo), che scorrazza capillarmente, fino ad arrivare nelle Filippine e a Venezia per la Mostra del cinema, tra torsioni e deformazioni.
Un tragitto ossessivo, portato a termine circondandosi degli amici e colleghi di sempre (dal sodale Seth Rogen al fratello Dave Franco, con piccole parti assegnate a Craig Robinson e Danny McBride) e resuscitando la bellezza tramortente di Megan Fox, senza scordare Will Ferrell, opportunamente sconveniente in una veste che evidenzia l’invadente discrasia tra artista e produttore, e il cammeo di Gus Van Sant.
In pratica, Zeroville sprizza da tutti i pori la compulsiva hybris di James Franco, fabbricando un ulteriore tassello di un mosaico cangiante e disallineato, che dispensa a briglia sciolta omaggi e citazioni, spaziando dallo sfrontato all’analitico, con modalità esasperate ma espresse con martellante generosità, concettualmente trasparenti e ignorando l’uso della punteggiatura. Una visuale che vede nel cinema l’ultimo rifugio possibile, nonostante debba forzatamente convivere con un carrozzone che acclama il nuovo arrivato per poi deglutirlo senza nemmeno essere conscio di cosa stia effettivamente gustando.
Immersivo e spettinato.
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