Regia di Pablo Larrain vedi scheda film
Nessuno si giudica da sè, in The club la distanza tra il perdono e la condanna è lunga quanto la vita. Quattro preti più uno, un cane, una donna, un vagabondo. L'umanità di Larrain non è sovraffollata.
Ritorna il cinema impegnato di Pablo Larrain, e Il club suo quarto film, può collegarsi al rigore stilistico dei primi due lavori che non alla leggerezza narrativa ma ugualmente efficace di No, i giorni dell’arcobaleno. Mai come in questa occasione Larrain persegue e ottiene un recupero formale radicale, armonizzando il testo e l’immagine secondo un equilibrio che stabilizza tutto il film. Lo si vede chiaramente dalle immagini evocative in controluce delle prime silenziose sequenze, fino ad arrivare ad un lunghissimo prologo finale che regala col montaggio alternato un carico emozionale e comunicativo degno di ben poche pellicole nelle ultime stagioni del cinema. Cile, in una piccola località sull’oceano quattro maturi sacerdoti vivono insieme dentro una casa, la chiesa madre li ha confinati e isolati in uno stato di penitenza e di preghiera dopo aver scoperto i loro esecrabili crimini dei quali non hanno mai risposto davanti a nessun tribunale, atti che vanno dalla pedofilia al collaborazionismo militare, alla tratta di neonati. Sono accuditi da una donna, suor Monica, che è l’unica ad avere contatti con la comunità ignara della presenza dei preti. L’arrivo di un nuovo ospite farà esplodere la fragilità del loro compromesso esistenziale. Forse il cinema di Larrain non possiede l’immediatezza per conquistare subito lo spettatore, la sgradevolezza e il fastidio delle tematiche e dei suoi protagonisti sono essenziali perché il coinvolgimento sia cosciente, onesto e senza mediazioni estetiche. Il club non è solo un film di denuncia sugli abusi sessuali compiuti dal clero su minori , deboli o incapaci, si pone come un tentativo di creare una consapevolezza, una ragione su di un tema forte e sulla natura della risposta da dare. Larrain ha il merito di costruire gradualmente la cognizione, facendo crescere il racconto senza saltare quei passaggi che nella loro prevedibilità consentirebbero a chi guarda di spostare la capacità di osservazione dallo scavo al frettoloso pregiudizio. Qual è il club di cui si parla, la casetta con i preti, la chiesa stessa, la comunità incapace di vedere, il personale micro mondo di chi non vuole guardarsi intorno e tantomeno dentro di sé? Larrain introduce due personaggi chiave, per amalgamare l’immagine cupa e offuscata dell’interno della casa dove si fa talvolta fatica a mettere a fuoco i personaggi, con le riprese più accese degli esterni collegandosi a quella luce che la citazione in apertura della Genesi oppone alle tenebre. La parola libera e fuori controllo di Sandokan, un pescatore vagabondo che nonostante la mancanza di lucidità possiede la verità, nella stessa misura di padre Garcia, un gesuita venuto ad indagare sulla condizione dei confinati, la cui azione ha il potere di mettere d’accordo, o da un altro punto di vista di scontentare sia laici che religiosi. Il cinema morale di Larrain si concentra proprio in queste due modalità, lo svincolamento da ogni tipo di dogma o di costrizione sociale per arrivare ad una soluzione, allo sviluppo di ciò che sembra conveniente mai modificare. Il club fa parte di quel cinema dall’approccio diretto e frontale, che sa porsi a contatto con la realtà senza anteporre il proprio giudizio perché non ne ha la necessità che invece dimostra nel riportare dentro lo schermo cinematografico aspetti anche sgradevoli della vita, storie nascoste, eventi che il ricorso alla tecnologia dell’effetto speciale e dell’irreale non contemplano perché inadatti alla spettacolarizzazione. Tra i vari autori di rilievo del continente sud americano, pur non facendo riferimento a d una scuola specifica o perlomeno a una modalità espressiva comune, Larrain si conferma come uno degli interpreti migliori.
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