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A Minor Leap Down

Regia di Hamed Rajabi vedi scheda film

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La recensione su A Minor Leap Down

di leporello
7 stelle

 

    Una porta bianca e una donna nera: ecco come comincia, rimuginante e lentissimo, il riflessivo film del trentenne iraniano Hamed Rajabi. Nahal, donna depressa e insoddisfatta incinta di quattro mesi, scopre, nerovestita, uscendo dal candido studio ginecologico ove si è recata per un controllo, di essere in realtà madre di un feto già morto nel suo grembo. Come se la morte stessa si fosse impossessata di lei, fagocitandola dall’interno, subito il mondo che la circonda le appare improvvisamente ostile: la giovane puerpera che le si siede accanto nella sala aspetto dello studio e che tenta con lei il solito approccio forzosamente intimo e amichevole di due future , giovani mamme, debitamente informata da Nahal con disarmante schiettezza del non lieto evento, le si discosta subito, prima di qualche centimetro, poi alzandosi per andare a sedersi altrove.

 

   Nahal (o meglio, la morte che è in lei), già alle prese con problemi pregressi di depressione più o meno conclamata, avverte (o crede di avvertire) attorno a sé, nella famiglia, nella cerchia di amicizie, nel posto di lavoro, come una sorta di ostilità e di ostracismo nei suoi confronti: decidendo di non informare nessuno dell’accaduto, e conservando dentro di sé il segreto di quella tragedia, la protagonista cerca (e forse trova) la conferma di essere calata in una realtà che non le è congeniale, nella quale è sostanzialmente estranea, non accettata, nemmeno dai parenti più stretti o dal povero marito Babak, vittima prediletta del disperato sfogo che Nahal si concede nel periodo immediatamente successivo. Trascorre così alcuni giorni, prima che il segreto non possa essere più taciuto, a vessare in ogni maniera il mondo circostante, reiterando una serie di comportamenti irrazionali, pazzoidi, (auto) distruttivi, e sempre senza una sbavatura, senza un’esitazione, senza una piccola smorfia sul viso che possa smascherarla, sempre negando psico-patologicamente ogni evidenza e anzi, rilanciando ogni volta indietro accuse e sospetti, con l’abilità e la pervicacia di un campione (e baro) di poker. In realtà, Nahal è semplicemente una donna disperata che non trova altro modo di reagire se non quello, come una pentola a pressione che non possa sfogare al di fuori la sua rabbia e che pertanto rivolta su se stessa (cioè sul microcosmo che abita e col quale condivide l’esistenza) la furia degli elementi che la agitano. Unica luce: un gattino, un cucciolo, sbucato da un cartone, che per un attimo, brevissimo, le accende un tiepido sorriso e le ridona per un istante le fattezze interiori di una coscienza umana e ragionevole.

 

   Il film è molto asciutto, a tratti la tragedia interiore che sfocia in atteggiamenti grotteschi (l’abito comprato senza neppure misurarlo, prezzo pagato: pari a due mesi e mezzo d’affitto; l’incidente voluto di proposito con la macchina; l’invito all’inaugurazione della nuova casa a base di solo di succo d’arancia offerto in piedi agli ospiti sbigottiti) prende un risvolto comico (tragicomico, ovviamente), ma il profondo disagio della donna, così profondo da non poter essere condiviso con nessuno (“Cos’è che ti far star male?” le chiede più di una volta suo marito. “Non lo potresti sopportare”, gli risponde Nahal) così intenso da provocare il rifiuto di estenderlo e condividerlo con altri che non sia lei stessa, da origine a un film basato  sull’incomunicabilità, sul dolore che abbruttisce, sulla (s)fiducia in ciò che ci circonda e prima ancora in se stessi.

 

   Dopo essere già stato proposto alla Berlinale della scorsa edizione, alla 51^ Mostra del Nuovo Cinema in corso di svolgimento a Pesaro è il primo film in concorso.  

 

Anche su MamoNonMamo.blogspot.it

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