Regia di Anucha Boonyawatana vedi scheda film
La realtà rimane laggiù, fuori dalla porta. Nascosta sotto una coltre di spazzatura. Invisibile, al di là delle finestre, dietro le tende. La si può cogliere solo indirettamente, come una proiezione di ombre e luci su una parete. È uno dei tanti spettri che vivono nel segreto, dentro il regno di un amore proibito. In uno spazio che si riempie di altre trasgressioni, giusto per divenire più vero, più coerentemente opposto al mondo degli altri. Phum e Tam sono due adolescenti gay, uniti da una relazione che deve restare clandestina. Una passione consumata nei luoghi abbandonati, sudici di alghe e muschio, intrisi del sangue di atroci delitti. Lì il ricco e il povero si possono incontrare senza paura, quasi che il rimbombo di un ben più grande terrore potesse fare da scudo ai delicati timori della gioventù. Gli spiriti infestanti parlano un linguaggio chiaro, tale da scacciare ogni ipocrisia. Sono mostri invincibili, che frantumano la finta forza dei prepotenti, tenendo lontani i bulli della scuola, i biechi profittatori, le reboanti miserie del pregiudizio. Gli ambienti maleodoranti in cui i due protagonisti si rifugiano forniscono loro un guscio imbottito di un soffice humus primordiale: un morbido letto che ammortizza i colpi dei mali artificiali, quelli procurati dalla stupidità, dall’atteggiamento meschino di chi si crede migliore. Il nido odora di morte come si addice a chi, per essere se stesso, è deciso a toccare il fondo, ad aderire a quella terra che l’ha plasmato e che lo richiama alla sua molle, silvestre, indomabile spontaneità. La ribellione cova sotto la superficie levigata della normalità, si rotola nel fango, dove l’orrore è di casa, perché è il principio generatore del cambiamento, di una diversità che grida per essere accolta tra i vivi. Il brutto è l’essenza – viscida, in quanto sfuggente, disgustosa, in quanto criptica - di una sfida trascendente lanciata contro la squallida, inconsistente provvisorietà delle regole sociali. Il film d’esordio della regista thailandese Anucha Boonyawatana presenta l’inquietudine come il bordo indistinto ed ovattato dei sentimenti genuini: un alone protettivo contro le ottuse, spigolose certezze che inquadrano e dividono le persone secondo categorie tanto rigide quanto vuote di pensiero. L’emarginazione ha i contorni sfumati del nero del peccato, del blu della tristezza, del grigio della noia intesa come contemplazione privata di ogni speranza. L’alienazione è scongiurata dal tuffo nei misteri ancestrali, nell’antico mito dei fantasmi vendicatori, dei cadaveri che risorgono e si mettono a vagare in cerca di giustizia. Lì si celano tutte le promesse di martirio, le anticipazioni dei sacrifici, i presagi di un’apocalisse livellatrice che cancellerà ogni differenza. Basta buttare fuori tutta l’aria e lasciarsi affondare, immergersi completamente, per sentirsi rinascere. È la celebrazione di un battesimo consumato nell’acqua torbida, sporca di detriti e miopia. È la definitiva, orgogliosa accettazione di sé come scarto, come rifiuto da coprire, sommergendolo di altro luridume. È il passaggio rituale ad una nuova coscienza di sé, che si ammanta della propria inguardabilità come di un segno magico, che rende invulnerabili, e incomparabilmente lucidi.
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