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Umberto D.

Regia di Vittorio De Sica vedi scheda film

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La recensione su Umberto D.

di LorCio
10 stelle

Rivedere un film del genere a distanza di più di cinquant’anni, vien da dire come rimanga disperatamente attuale, amaramente moderno. Il frutto più maturo dell’esperienza storica-letteraria-sociale-politica del Neorealismo è questo sensibile e quasi impietoso ritratto di vecchio pensionato che non vive, ma sopravvive in un’esistenza minata dall’economia forzata e dalla mediocrità che lo circonda. Impiegato ministeriale in pensione, Umberto D(omenico Ferrari) è vessato dall’arrogante padrona di casa, ha un rapporto di amicizia con una servetta e tratta il suo cagnolino, il bastardino Flik, pari ad un essere umano, sottraendo a se stesso il poco cibo che passa la mensa. Dopo un goffo tentativo di suicidio, si rende conto che non può abbandonarlo. Tanto vale continuare a vivere, al limite, ma a vivere. Da molti considerato l’estremo, sublime tentativo di ridar linfa al già decadente Neoralismo, è probabilmente il più risoluto e aspro esempio di quel movimento culturale e sociale, un concreto capolavoro di solidità narrativa che s’accompagna ad una messinscena volutamente reale, scarna nella sua povera ricchezza di elementi di vita vissuta. Quel che De Sica e Zavattini cercano di comunicare è un messaggio di bene comune e di riconciliazione collettiva: l’abbandono è sempre doloroso, ma quando è forzato lo è ancor di più. Tutta colpa della vita. Di questa vita. Viva la vita! Film crudele, disincantato e imprescindibile, che fa perno ad una figura centrale finemente disegnata dal non professionista Carlo Battisti, settantenne professore di glottologia all’Università di Firenze. Il suo Umberto D(e Sica, come il padre del regista, al quale il film è dedicato) è più che umano, investito da un’amarezza nei confronti della gente silenziosa e triste: un inchino di fronte alla scena della tentata della tentata elemosina, una delle immagini più spietate che il cinema italiano abbia mai avuto il coraggio mostrato. La vecchiaia è presa per quello che è (o meglio, per quella che la si vuol far passare), un brutto, ingombrante fastidio che getta nella solitudine e nella rassegnazione chi ne viene colpito. Ma che libertà emanano le scene finali del ritrovato rapporto con Flick. E che malinconia, che malinconia.

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