Regia di Jafar Panahi vedi scheda film
Scusate se mi auto-cito, però quando ho visto "Taxi Teheran" mi sono venute subito in mente le mie stesse parole, che spesi parecchi anni fa a proposito del capolavoro del cinema iraniano "E la vita continua" di Abbas Kiarostami. Le riporto:
"Un film-limite, estremo, di raffinata semplicità e di complessa sobrietà. Vi si trova la rassegnazione di un popolo e la necessita' di documentarla attraverso il cinema, nonostante il dolore e il dramma. Un viaggio, tra realtà e fiction, in un Paese devastato, (...) ma deciso a guardare avanti con l'umiltà di sempre; un'esperienza che porta alla consapevolezza e alla saggezza. Stilisticamente il film contiene tutti gli stilemi del cinema del maestro iraniano: l'automobile come mezzo indispensabile per la conoscenza della realtà, un protagonista che si comporta da "cronista", chiedendo notizie alla popolazione, un bambino che imparerà la sua lezione di vita, una perfetta alternanza di piani fissi e carrelli, di riprese nell'abitacolo della vettura e di campi lunghi sulle distese irte e fangose, di primi piani essenziali e di voci off, di drammi umani e di parentesi distese. "E la vita continua" è la quintessenza del cinema iraniano perchè mostra, del cinema (della finzione, di una storia romanzata...), la sua impossibilità teorica, in questo Paese martoriato (...), ma al tempo stesso la sua necessità estrema."
Ecco, sarei tentato di copiare pari pari queste parole per descrivere l'ultimo lavoro di Panahi. Mancano solo i carrelli e le colline fangose. Sono passati oltre 20 anni, ma la sostanza (e il linguaggio) del cinema iraniano è sempre la stessa. Nel frattempo l'Iran è peggiorato, e agli sfollati del terremoto del 1990 si sono sostituiti i prigionieri politici dell'attuale regime. I carrelli, in questo film, non ci sono perchè il regista aveva a disposizione solo una Go-Pro installata sull'automobile, il suo telefonino e la fotocamera della nipotina. Troppa grazia, se ci pensate, considerando che si tratta di un film girato in clandestinità (come "I gatti persiani" di Ghobadi) nel pieno centro di una metropoli. Le colline fangose invece mancano per il semplice fatto che questo film-viaggio, totalmente ambientato nell'automobile guidata dal regista stesso, secondo un procedimento affine a quello di "Ten" di Kiarostami, non abbandona mai le strade affollate della capitale Teheran.
Tutto il resto, per forme e contenuti, corrisponde a quanto scrissi nel commento auto-citato sopra. E' impressionante come, a distanza di così tanto tempo, il cinema iraniano mantenga una simile solidità, coesione ed unità di intenti fra i suoi vari esponenti (il neorealismo italiano lo fece solo per 7 anni, poi la Storia italiana ebbe una evoluzione, nel bene o nel male, e con essa il cinema; la Storia iraniana invece pare come impantanata). Ed è impressionante come, nonostante questa ripetitività, ci siano ancora opere validissime e stimolanti, pur battendo sempre sullo stesso tasto (come dimostrano anche le recenti, apprezzabili opere di Fahradi). Verrebbe da pensare che, per paradosso, il minimalismo sia una fonte infinita di creatività.
"Taxi Teheran" naturalmente parla di Panahi, della sua vita e del suo cinema. Non certo per narcisismo: ma per il semplice fatto che parlare di Panahi significa rappresentare una sineddoche della persecuzione politica. Il tema non può che essere quello. La situazione giudiziaria di Panahi gli impedisce di disporre di una troupe, ma non di voler raccontare il suo Paese, la sua gente: ecco dunque che, come in "E la vita continua", ricompaiono l'impossibilità teorica e la necessità estrema di fare cinema. Da questo connubio di mezzi espressivi ridotti all'osso e bisogno impellente di registrare e comunicare i propri pensieri riguardo al presente dell'Iran, nasce un meta-film unico al mondo, un testo critico dove denuncia politica e riflessione sul linguaggio filmico trovano un punto d'equilibrio. Come dare forza alle immagini, alle parole, ai volti, ai luoghi, alle storie con mezzi filmici così esigui? Come far passare messaggi politicamente sacrosanti, evitando di indebolirli con la retorica del contenutismo? In breve, che forma adottare?
Panahi si avvale dei mezzi tipici del suo cinema e di quello dei suoi connazionali. Il viaggio in automobile come occasione per incontrare e conversare con altre persone (programmatico, ma lucido il confronto iniziale fra l'uomo "di destra" e la donna "di sinistra"; meno riuscito il siparietto con le due vecchie col pesce rosso); l'utilizzo di un filtro infantile per smascherare le aberrazioni del Sistema (la nipotina di Panahi è già stata indottrinata, eppure non comprende il senso delle imposizioni ricevute); l'ironia e il gioco meta-filmico (il passeggero che vende DVD d'autore pirata e il suo amico che chiede consigli a Panahi, il quale però non rivela allo spettatore le sue preferenze cinematografiche, tenendolo sulle spine); il mix di leggerezza e problematicità, l'articolazione tematica che scaturisce miracolosamente dalla spontaneità dei personaggi.
Ma soprattutto due elementi ribadiscono il Panahi-pensiero in maniera perentoria. L'ambiguità fra realtà e messinscena, casualità e costruzione: dove finisce la prima e dove comincia la seconda? Non ha importanza: Panahi sa benissimo che la realtà, filtrata dai media, è comunque manipolata: sono gli scopi di tale manipolazione a fare la differenza. I media di regime opprimono opinioni e sentimenti; quelli di contestazione li liberano. Non ha senso chiedersi se quell’uomo ferito e spaventato, trasportato da Panahi all’ospedale, facesse finta o meno (augurandosi ovviamente che fingesse e che campi altri cent’anni!): quello che conta è la registrazione di un dramma, la sua resa emotiva e, con essa, la presa di coscienza di uno dei tanti aspetti vergognosi della legislazione iraniana (l’iniquità della disciplina testamentaria nei confronti delle mogli).
Questo ci conduce all’altro aspetto, implicito in altri film di Panahi (“Lo specchio”), quello dell’invadenza (positiva o negativa) della telecamera, fenomeno acuito nella contemporaneità iper-tecnologica. In “Taxi Teheran”, avviene un corto circuito di mdp, che si inquadrano a vicenda. In una scena, la bambina è inquadrata dalla Go-Pro mentre inquadra con la sua fotocamera un cameraman che inquadra un matrimonio! Tutto questo crea una incredibile proliferazione e sovrapposizione di testi e sottotesti, di film-nel-film, di storie nella storia, di morale e contro-morale, con le quali ci si perde in un abisso di riflessioni sul senso stesso del filmare e sulla sua ambigua valenza politica. La centralità dell’immagine riprodotta come mezzo primario di informazione e riflessione è confermata nella scena in cui un amico di Panhai mostra, da un i-pad nascosto allo spettatore, il video di un’aggressione ai suoi danni. La forza intrinseca dell’immagine bilanciata dalla scelta di un regista di mostrarla o meno: puro teoria estetica e politica.
Il finale, amareggiato, con l’avvocata che commenta desolata le brutture del suo amato Paese e poi porge una rosa sul cruscotto, sta fra la documentazione e la poesia più umile. La visione di una rosa (metafora vegetale salvifica, come il gelso del “Sapore della ciliegia” di Kiarostami) viene negata nel brusco e violento finale: ma le voci degli oppressori, che sentiamo fuori campo, non sono riuscite, per fortuna, ad impedire l’uscita del film nel mondo libero.
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