Regia di Jafar Panahi vedi scheda film
Taxi Teheran, l'ultimo film di Jafar Panahi, è un atto di amore e di fiducia nei confronti del cinema, fiducia nella sua capacità di diventare strumento di emancipazione e libertà. D'altronde, in questo film-documentario girato con il semplice utilizzo di qualche telecamera a bordo di un'automobile, è il regista stesso, interprete principale, traghettatore di persone comuni e di noi spettatori e deus ex machina dell'intero marchingegno, a palesarci il meccanismo della finzione e a renderci partecipi dell'ingranaggio metacinematografico. E ce lo comunica per bocca di un venditore di dvd illegali, come un prestigiatore che rivela il trucco alla platea, mostrando dove finisce la finzione e inizia la realtà. Perché Taxi Teheran, film costruito clandestinamente in cui tutto è preparato per dare allo spettatore l'impressione di trovarsi effettivamente in giro per la città di Teheran in una giornata qualunque a contatto con persone di ogni estrazione sociale, è un'opera verista che usa proprio lo strumento della finzione per svelare una realtà fatta di contraddizioni e miseria, in cui si può venire impiccati per un semplice furto quando è proprio la società stessa che contempla il furto come mezzo di sopravvivenza per i più disperati, in cui chi vuole studiare cinema non può vedere la stragrande maggioranza dei film stranieri perché immorali e per girarne uno deve evitare di raffigurare ciò che lo circonda con "sordido realismo", espressione ipocrita e arcigna che pretende l'autocensura da parte del regista, precludendo la possibilità a chiunque voglia intraprendere tale carriera di fare ciò che un regista è tenuto a fare, ovvero a non porre limiti alle proprie idee e alla propria creatività. In pratica gli si chiede di allontanarsi dal reale o di mistificarlo, e pertanto Jafar Panahi, messo alle strette, ha deciso di eliminare il problema alla radice, ovvero di dichiarare apertamente la dimensione fittizia di quest'opera, la quale raggiunge l'obbiettivo di ritrarre la realtà in maniera più veritiera e genuina di un semplice documentario, ma soprattutto rispettando la visione che il regista ha della sua nazione. L'espediente di non inserire titoli di coda ha del geniale e contribuisce da una parte a dare l'impressione che i personaggi incontrati non siano semplici attori ma esistano anche fuori dal grande schermo, e dall'altra è un sonoro schiaffo alla censura iraniana che non prevede titoli di coda per i film "immorali". Giocato tutto su toni leggeri e ironici, il film di Panahi scorre piacevolmente e, tra episodi più o meno riusciti (le parti con sua nipote e con l'ultima passeggera sono di gran lunga le migliori), assolve al compito che si era prefissato, quello di essere strumento di verità e omaggio al cinema come testimone dei tempi che furono e che tutt'ora sono.
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