Regia di Jafar Panahi vedi scheda film
Realtà in cerca di soggetto.
In Taxi Teheran Jafar Panahi veicola quello che è uno straordinario, attualissimo documento politico, storico, sociale e sociologico, culturale, filmico, umano. La storia personale del regista, intanto - gli è vietato fare cinema, tra le altre cose -, che emerge più che altro da ciò che già si conosce che dall'opera in sé (la classe, l'umiltà, l'espressione sorridente sono senz'altro autentiche): basta una voce udita (forse) nel magmatico flusso urbano - e che apparterrebbe ad uno dei suoi torturatori ("l'effetto degli occhi bendati") - per rievocare quanto successo e lo stato in cui è/sarà costretto.
Ma non solo, infatti: la variegata, complice fauna umana che abita il suo taxi racconta in maniera puntuale, penetrante, inequivocabile una società e le sue con(trad)dizioni, le sue gabbie, le sue chiusure e gli squarci sulla modernità e sul mondo moderno (toh: i dvd pirata dei proibiti film stranieri), lo spirito e le paure e la vitalità che la animano/rappresentano.
Un pezzo puro e forte - tanto più prezioso quanto è educat(iv)o - di quello che le implacabili autorità chiamerebbero sprezzanti «sordido realismo» (assolutamente vietato, ça va sans dire). In interno auto. Non a caso, più volte, vengono citate le vicende dei due impiccati per il reato di scippo (e relativa, reiterata "pubblicità" ammonitiva) e di Ghoncheh Ghavami, la ragazza arrestata per aver assistito - ovvero aver tentato di assistere - a una partita di pallavolo (e conseguenze annesse: i ricatti e le confessioni forzate, anche alla madre, lo sciopero della fame e della sete, l'iter giudiziario).
Attraverso i concetti e le parole e le (re)azioni degli occasionali passeggeri, ne abbiamo un disegno preciso quantunque frammentario: c'è chi sostiene la pena di morte per chi ruba le gomme di un'auto (salvo poi definirsi, fieramente, un borseggiatore) e chi (un'insegnate di scuola materna) ne contrabatte il pensiero, chi è legato alle tradizioni e superstizioni locali, c'è il proprietario di un videonoleggio (nonché fornitore porta a porta di film piratati) convinto sostenitore della portata "altamente culturale" della sua attività, e chi, in punto di morte, registra su telefonino un video-testamento perché altrimenti, per legge, la moglie non erediterebbe alcunché.
Ed ancora, la «donna dei fiori» (una tosta avvocatessa a cui l'ordine di appartenenza, subdolamente, vuole vietare di esercitare) che esprime le sue idee facendo riferimento a casi concreti (tra cui lo stesso Panahi), e la simpaticissima nipotina del regista, amante delle buone maniere, del café glacé e del (realizzare) cinema, del quale fatica a comprendere le ferree regole (un vero e proprio decalogo, tra l'ovvio e l'assurdo) che lo Stato impone per rendere un lavoro "distribuibile".
E proprio in ciò sta la chiave, ulteriore, di Taxi Teheran, che non si ferma - ed anzi oltrepassa - il mero valore documentale e la (logica della) forma documentaristica: le telecamerine (più o meno) nascoste - orchestrate dal regista iraniano con la cura di chi osserva e cerca di capire una visione senza imporla - catturano e registrano pensieri, desideri ricorrenti. Dall'aspirante regista in cerca di un soggetto, al vecchio amico rapito che immagina che la sua storia possa essere il soggetto per un film, alla nipote - studentessa della settima arte - a caccia di un soggetto per un cortometraggio da presentare ma che, stanti i divieti e l'impossibilità di tradurre il vero nell'immaginario e viceversa, non comprende (e noi con lei) «cosa è reale e cosa non lo è»: ecco che, il veicolo-film trascende la sua (co)stretta dimensione per farsi precisa riflessione (sostanziale) sul mezzo e sul significato di fare cinema, oggi. In Iran, e non solo (perché, «ci sono realtà che non si possono mostrare» un po'ovunque).
Con una conclusione quasi "pirandelliana": la (una) realtà ha bisogno di un soggetto per essere raccontata.
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