Regia di Jafar Panahi vedi scheda film
"Puoi aver visto tutti i film del mondo, letto tutte le storie del cinema, ma poi l'idea ce la devi mettere tu": così Jafar Panahi, improvvisatosi tassista, catechizza un giovane aspirante filmmaker che sale nell'abitacolo della sua vettura. Il cinquantacinquenne regista iraniano non può che esserci simpatico per via delle prese di posizione rispetto al governo di Teheran e per le traversie che lo hanno portato alla prigione per motivi politici. Ma bisognerebbe anche spiegargli che, anche se si dispone di un budget di soli 32.000 euro (Manetti Bros. docent) e un pedigree di tutto rispetto, quell'idea deve essere quanto meno dignitosa. E invece Panahi, per quanto vessato dalla censura iraniana (ma guardate cosa ha fatto Nima Javidi nel chiuso di una casa con l'ottimo Melbourne o lo stesso Panahi con This Is Not a Film e Closed Curtain) e costretto a una realizzazione carbonara dell'opera, si limita a giustapporre gli incontri che avvengono nel suo improbabile taxi con un registro talmente inverosimile da scoperchiare tutto l'elemento di finzione rispetto a quella stessa realtà che lui pretenderebbe di raccontare. Una discussione tra due utenti sulla pena di morte, un venditore di dvd pirata, un uomo incidentato da condurre all'ospedale, la sua nipotina e la sua avvocatessa costituiscono gli episodi di quest'opera sgangherata, nella quale i personaggi non sono che macchiette incapaci di mostrare, foss'anche in chiave ironica, il volto segreto e repressivo dello stato asiatico, con un registro che vorrebbe collocarsi tra commedia e melodramma e che invece risulta essere una docufiction involontariamente grottesca. Da abbonato qual è, il regista a Berlino ha ricevuto in dono l'Orso d'oro a titolo di indennizzo.
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