Regia di Jafar Panahi vedi scheda film
La verità non si può fermare: è un fantasma un po’ spaurito, un po’ bambino, che percorre, con indole semplice, le comuni vie del mondo. È un carrozzone fuori dal tempo, a bordo del quale viaggiamo noi, anche se non proprio tutti: solo i più coraggiosi od innocenti, che parlano a sproposito per un eccesso di ingenuità. Il taxi non va dove vuole il conducente: la sua destinazione è dettata, ogni volta, dalla gente raccolta per strada, incontrata là per là, che lo indirizza secondo i propri momentanei desideri, le istanze di una condizione umana che si fa forte della propria confusa precarietà. Le leggi possono essere rigide e severe, ma il mare, là in basso, rimane sempre agitato. La sua superficie è increspata dai discorsi buttati al vento, che si mescolano ad esso con l’energia delle passioni totali, senza compromessi. Anche Jafar Panahi si lascia guidare. Siede al volante di un’auto pubblica, ma non è lui a decidere il tragitto. È un regista, ma non è a lui che obbedisce la macchina da presa. La realtà è la corrente da cui occhio e obiettivo si lasciano trasportare, in mezzo al traffico di Teheran, nella clandestinità dei sussurri ribelli di cui sono infarcite le chiacchiere dei viandanti. Salire su quella macchina equivale a diventare protagonisti, testimoni, portatori di ciò che ufficialmente non esiste, che sarebbe vietato dire. Opinioni non ortodosse. Racconti di nefandezze. Affetti e superstizioni. Punti di vista individuali, sulla politica, sull’arte, sulla morale. Quell’abitacolo diviene un teatro popolare dove la vita si prende la rivincita su un regime ormai distante, i cui proclami volano al di sopra delle teste delle persone, le quali non ascoltano e, comunque, non capirebbero. Le regole della censura rimangono ridicolmente aggrappate al loro nonsenso, mentre il cinema di Panahi rivive il proprio passato come se non vi fosse nulla di più attuale: Il palloncino bianco, Lo specchio, Il cerchio, Oro Rosso, Offside sono ancora lì a raccontare ciò che sta succedendo. Quelle opere, condannate a non avere seguito, sono rimaste ad aspettare che il loro destino si compia, curiose di vedere come andrà a finire. Orfane del loro futuro, sono costrette a dimorare per sempre nel presente, come anime in pena, ripetendo all’infinito la loro invocazione. Il loro creatore le prende con sé e le porta in giro per la città. E si rallegra nel ritrovarle libere, immuni dalla paura di essere se stesse, e più che mai consapevoli dell’ambiente che le circonda. L’Iran è un grande paese, che, però, deve fare i conti con i tanti piccoli dolori che ne affliggono il cuore. Prima fra tutti, la povertà che induce a delinquere, e di fronte alla quale nemmeno la più brutale applicazione della sharia riesce a fungere da deterrente. In questa storia nessuno, a quanto pare, si lascia intimorire. Nemmeno chi è stato arrestato, detenuto e magari torturato. C’è una spinta incontenibile che si oppone all’oppressione, e che spazia dal banale istinto di sopravvivenza ad un nobile senso civico, passando attraverso la forza del sentimento, dell’amicizia, della solidarietà. Jafar Panahi vuole immergersi in quel movimento tumultuoso e spontaneo, che si svolge al livello del suolo, ed è come un brulicare di singolari determinazioni, di personali cocciutaggini slegate dalle presunte ragioni della Storia. Accade in un giorno qualunque, mentre, per seguire il corso degli eventi, ci si affida apparentemente al caso, in una finzione che simula brillantemente l’incongruenza della normalità, dove tutto è talmente scontato e caotico da risultare, nel complesso, perfino commovente.
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