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Taxi Teheran

Regia di Jafar Panahi vedi scheda film

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La recensione su Taxi Teheran

di supadany
8 stelle

Quando il cinema assume mutevoli e simboliche vesti, un piccolo miracolo firmato dal regista (suo malgrado) “ribelle” Jafar Panahi che aggirando le leggi che gli impediscono di attuare la sua arte, parla del suo Iran, ma su diversi temi quanto vediamo si può estendere a più ampie considerazioni.

Chiaramente non si parla di un’opera tradizionale, in sala ho potuto segnalare alla fine un certo senso di disorientamento, ma viste le limitazioni che già ben si conoscevano fin dalla presentazione a Berlino 2015 (dal quale il film ne è uscito con l’Orso d’oro), direi che grazie ad un profilo “cheap and easy”, siamo lontanissimi dal cinema “mattone”.

Le strade di Teheran pullulano di automobili e di pedoni, un taxi le attraversa ed alla guida c’è niente di meno che Jafar Panahi nei panni di se stesso.

Attraverso una telecamera vengono ripresi i dialoghi con le persone che incontra e trasporta, occasioni per scandagliare argomenti di comune interesse.

 

Jafar Panahi

Taxi Teheran (2015): Jafar Panahi

 

Vista la carriera, è difficile descriversi sorpresi di fronte alla visione di una nuova opera di Jafar Panahi, ma questa volta non si può fare a meno di farlo.

Introduzione nel caos da metropoli brulicante, attori che recitano la loro parte, in alcuni casi fingono (apertamente) di non essere attori, in altri chiaramente recitano, tutto per parlare dell’Iran di oggi, con le regole imposte per fare cinema, che sembrano comandamenti diabolici, ma poi non sono da meno (anzi) altre leggi (lo sguardo si espande), ad esempio una lunga scena è costruita ad hoc per ricordare la condizione subordinata della donna (in caso di morte del marito non riceve nemmeno l’eredità, l’unica speranza per l’uomo in punto di morte è che non finisca in mezzo ad una strada).

E tra ingressi ed uscite di scena di svariati personaggi (tra questi rimane insuperabile la vivacità della bambina, che pare assai più vicina ad un mondo diverso, una speranza per il futuro?), c’è sempre lui, il regista, ed è rilassante vederlo sempre sorridente e disposto a miti consigli (cinematografici ad esempio, “tutti i film meritano di essere visti”), una ribellione al sistema portata avanti con grazia e solarità, metodologia capace di impattare ancora di più rispetto alla protesta fragorosa e rumorosa, perché portata comunque avanti con decisione e poi per il fatto che è sempre più difficile reprimere pubblicamente chi viene in pace.

Trattasi anche di una vera testimonianza dell’arte che trova i suoi sbocchi anche di fronte ai divieti più manifesti, del progresso tecnologico che consente di aggirare le imposizioni dall’alto (maggiore è il controllo, più lo si aggira in clandestinità), con richiami alle precedenti opere del regista (“Off-side” per le donne allo stadio, “Lo specchio” e “Oro rosso” autocitate apertamente), poi è palese che non si tratti di cinema tradizionale, ma anche le limitazioni del mezzo di trasporto come luogo (quasi) unico e delle poche fonti di ripresa (due direzioni in auto, più la macchina digitale della bambina), non pesano affatto.

Autentico.

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