Regia di Jafar Panahi vedi scheda film
Introvabile l’elenco dei “crediti” di questo film, evidente persino dalla drammatica nudità della scheda su questo sito. Parrebbe, perciò, un film senza attori, senza produttore, senza sceneggiatore, senza lo staff dei collaboratori necessari alla riuscita di qualsiasi film.
Di Taxi Teheran, dunque, ci è possibile conoscere solo il regista Jafar Panahi, che grazie alle sue precedenti pellicole, da Oro rosso, a Offside, aveva informato tutto il mondo della realtà del suo Iran in rapida trasformazione, evidenziandone gli aspetti più problematici e contraddittori, quelli che, secondo il regime degli Ayatollah, non devono in alcun caso essere oggetto di rappresentazione cinematografica.
Dopo la condanna penale del regista, seguita dal divieto di espatrio e dall’ imposizione di non girare film per vent’anni (pena il ritorno in carcere) la vita di Panahi si svolge alla guida di un taxi, sul quale egli ha sistemato - opportunamente camuffandola - la telecamera che gli dà la possibilità di continuare il proprio racconto, cioè di far ancora vivere, attraverso le riprese nascoste, la magia del cinema, narrando la vita degli uomini e delle donne che su quell’automezzo salgono diventando i personaggi di una commedia umana della quale egli lascia emergere gli aspetti più buffi, paradossali e talvolta anche quelli più altamente drammatici.
I suoi passeggeri, non tutti consapevoli della telecamera nascosta, sono:
– un borseggiatore che invoca la pena di morte... per i ladri e che viaggia insieme all’insegnante politicamente corretta e agguerrita nel controbatterlo;
– la donna che accompagna il consorte gravemente ferito all’ospedale, preoccupata di raccoglierne il testamento per non essere cacciata dalla sua casa;
– i due appassionati di cinema che lo riconoscono e lo festeggiano, continuando a vendere sottobanco i DVD dei film vietati dal regime;
– l’avvocatessa che difende i dissidenti, invisa al governo;
– due anziane signore che vogliono trasportare i pesci rossi in un fragile vaso di vetro, facendone addirittura una questione di vita o di morte.
Le loro storie si alternano e talvolta si mescolano, come la realtà e la finzione, in questo racconto leggero che è bonario e ironico, ma che assume verso la fine un ritmo più concitato e inquietante, a testimonianza dell’ insidioso pericolo a cui è sottoposta quotidianamente la vita e l’attività artistica di Panahi, che grazie al suo coraggio riesce ancora a parlarci e a spiegarci le ragioni di un’opposizione irriducibile.
Un ruolo importante nella narrazione è quello di Ana, la nipotina del regista, che all’uscita dalla scuola gli legge le dieci regole fondamentali per imparare a fare un buon film, almeno secondo l’insegnante che le aveva appena raccomandate a lei e ai suoi compagni animati dalla voglia di cimentarsi con le piccole camere digitali.
Ana aveva subito compreso che di quella “summa” delle cose da evitare con cura, nessuno avrebbe tenuto conto, essendo la realtà da rappresentare molto più dura di quanto la sua zelante maestra aveva spiegato.
Il film, fu molto applaudito al Festival di Berlino del 2015, dove ottenne il meritato Orso d’oro, ritirato, nella generale commozione, dalla piccola Ana.
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