Regia di Joe Dante vedi scheda film
Dal maestro Joe Dante, allievo fisico di Roger Corman e spirituale di Mario Bava, arriva un film importante e codificante il werewolf-movie. A lui coevo è il “Lupo Mannaro Americano a Londra” di John Landis. I due film restano nella memoria anche per le due trasformazioni licantropiche “in diretta” a cui il pubblico non era mai stato abituato, e di cui quella di Joe Dante è la prima in assoluto a mostrare tale trasformazione senza trucchi filmici, ma operando soprattutto sul profilmico grazie ai meccanismi degli effetti speciali di nuova generazione. In ogni caso, i due film, firmati da grandi autori del genere, restano un unico dittico sul mito dell’uomo lupo all’alba del decennio edonista per antonomasia, anticipando così la riflessione sulla mutazione della carne cara anche a Cronemberg.
Nella fattispecie ci troviamo a Los Angeles dove un’eroica giornalista d’assalto cerca di fermare un serial killer. Il trauma subito la obbligherà a prendersi del riposo, e lo psicologo curante la invita in una sua comunità arroccata tra i boschi della costa nord. E già in questa rapida sinossi avvertiamo subito una prima caratteristica narrativa e simbolica che in un certo senso si oppone a quella di Landis. In Joe Dante l’uomo di città, sebbene qui sia una donna con suo marito, esce dalla metropoli e quindi dalla modernità, per entrare in una comunità pseudo-primitiva e pseudo-bucolica e quindi entra di colpo in un mondo di tradizioni, di superstizioni e di ancestrali pratiche sociali. In Landis invece, a parte il bellissimo e ancora oggi insuperato incipit nella desolata landa inglese, l’uomo cittadino si catapulta ulteriormente in un altro mondo cittadino, molto brit e poco yankee, forse sta tutta qui la differenza di segno, ma a Landis interessa giocare su altro. Joe Dante dal canto suo firma dopotutto una vera e propria favola nera con echi di cappuccetto rosso e hansel e gretel.
Sempre nella poetica “dantesca”, piuttosto che un viaggio attraverso il bosco contaminato dagli uomini lupo, abbiamo un arrivo, un’insediamento in una comunità contaminata. Non è quindi la cifra del viaggio a modellare la riflessione anche narrativa del racconto lupesco di Joe Dante, ma quella di un insediamento, di una nuova radicalità, anche se temporanea. La poetica applicata all’estetica porta così il film a modellarsi sui toni di una favola per adulti, fatta di oscurità che predominano sulle solarità, con una fotografia flou che avvolge e annebbia gli interni e gli esterni per ossequiare il registro fiabesco, e una serie di mostruosità, che data anche l’epoca, si rifanno ancora al trucco posticcio e riconoscibile della teatralità. Il segno ultimo de “L’Ululato” è un segno letterario. Letterarietà cinematografizzata anche dal fatto che per intertestualizzare il gioco narrativo vengono presentanti volti di lusso di un certo immaginario. Oltre al vecchio Slim Pickens, al Patrick Macnee del serial “Avengers” e alla comparsata iniziale del nume Roger Cormar, su tutti giganteggia il mitico John Carradine che avendo vestito prettamente i panni del Conte Dracula, finalmente veste anche quelli di un’altra celebre icona horror: l’uomo lupo.
Tutto, dall’ambientazione alla modulazione narrativa tipica della favola nera europea attraversata dalle inquietudini di quella andersoniana, ben si presta ad affondare le zanne e gli artigli in argomentazioni che all’inizio del decennio degli ’80 saranno fondamentali. Innanzitutto vediamo come la presenza ossessivo-compulsiva del media televisivo diventi catalizzatore, mostro e infine deux ex machina della vicenda. Inizialmente la smania dello scoop e della prestazione professionale spingono la protagonista a vivere un’esperienza traumatica che la spingerà a recarsi in un’amena località campestre (e qui il locus aemenus diventa piuttosto un locus horribilis) da cui prende avvio la storia principale; in secondo luogo questa tv imperante ammalia tanto i suoi “adepti” da innescare in loro uno stimolo inverosimile all’audacia e al coraggio irresponsabile, travolti sempre dall’abbaglio della gloria e della notorietà; ma sulla fine, il tanto mostruoso mezzo tv diventa l’unica soluzione possibile per mettere la parola fine a tutta questa tragica storia che per essere chiusa ha bisogno del consenso popolare. Ma per un gustoso ed ironico rovesciamento della medaglia, gli spettatori televisivi non sapranno riconoscere la “verità” mostrata in video. C’è chi lo prende per un effetto speciale e chi per qualcosa tutto sommato godibile, senza leggerne il significato segnico. Un oggetto quindi, la TV, che non riesce ad essere demonizzata in toto, ma nemmeno riesce in una sua ipotetica funzione demiurgica.
Altra argomentazione fondamentale del film è la sessualità. Le immagini iniziano con la figura del dottor Waggner (ovvio omaggio al regista del famoso “Wolf Man” della Universal) che in tv (e dove se no?!) profetizza il suo verbo a scopo commerciale, sintetizzando le aspettative dello spettatore dicendo: “La repressione è l’origine di ogni turba”. E per estensione quindi, è origine di ogni ignoranza, di ogni violenza e di ogni frustrazione che porta poi l’individuo ad una forma di aberrazione sociale. Joe Dante parte chiaro e lucido: la nostra animalità, se repressa, può trasformarsi in un’incontrollabile ondata di violenze e orrori. Ora non è la sede per indagare chi o cos’è l’uomo e quanto ci sia di falso e sbagliato nell’indottrinamento moderno delle nostre società. Ma è indicativo di come il mito dell’uomo lupo sia sempre stato recepito come l’archetipo immaginifico di questa lacerazione sicuramente esistenziale, ma altrettanto naturale che separa e attrae l’uomo all’animale. Ogni repressione culturale è negativa, perchè limita se non addirittura castra la libertà ontologica dell’uomo, che non è quella derivata dalle religioni e dai regni sovrani, ma quella ad esso connaturata. Chiamasi etica. Un rapporto quindi, uomo/animale, città/natura, libidine/castrazione, libertà/repressione, rappresentato dall’altissima figura tragica dell’uomo lupo. Figura che merita una trattazione a parte. Per chiudere: nonostante le due grandi e magistrali trasformazioni “meccaniche” ed effettistiche di Robert Picardo, alias Eddy Quist, la trasformazione più bella, più visceralmente orrorifica e perturbante, per associare mostruosità e libidine sessuale, è quella di Christopher Stone alla luce del fuoco in mezzo al bosco in piena notte mentre copula con la ninfomane del villaggio. Inimitabile.
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