Regia di Karyn Kusama vedi scheda film
Un invito a cena può nascondere secondi fini. Un gruppo di amici sfida verità insostenibili e qualcuno pagherà il conto.
Nella cinematografia americana contemporanea esiste di fatto una divisione, un prima e un dopo quello che è stato l’evento cardine del nuovo millennio e che ha contrassegnato il futuro. L’11 settembre 2001 non ha solo sgretolato l’inattaccabilità, la sicurezza dei valori su cui si fonda la società americana, ma ha decodificato quell’immaginario collettivo e ideologico che da sempre ha sorretto la dicotomia tra il bene e il male, imponendo un nuovo rapporto con la realtà di non facile accettazione. Il cinema ha risposto in modi differenti, poche volte finora affrontando direttamente la questione, mentre in maniera sempre più preoccupante la fiction del quotidiano partendo dalla difficoltà di rielaborazione del lutto, ci propone attraverso la cronaca nera escalation di azioni violente di singoli individui che a seconda delle proprie deviazioni psichiche individuano fantomatici nemici da eliminare per ripulire il terreno intorno a sè. Sta invece emergendo forse sotterraneamente, ma in maniera molto più decisa della rappresentazione del disastro rievocativo fine a se stesso, una propensione analitica del cinema, che paradossalmente sembra accantonare la spettacolarizzazione (perché superata dall’evento reale) alla ricerca di quelle contraddizioni interne alla società che invece non guardare all’esterno come se tutto ciò che esula dal proprio mondo fosse materia fertile per un ipotetico nemico. The village(2004) di Shyamalan con tutto il suo apparato simbolico che ha prefigurato alla perfezione l’immagine di una società ferita e manipolabile, è stato un esempio calzante. The invitation arriva alla dimensione privata, all’intimità del singolo, il film contiene nella sua apparente struttura di dramma da camera e thriller a tinte orrorifiche gran parte di questo discorso ponendosi come antitesi tragica e subdolamente evocativa ( per similitudine narrativa, sia chiaro) alla disillusione amara ma in fondo giocosa e innocua di Il grande freddo di Kazdan, cioè di uno dei titoli generazionali più significativi che ha disegnato la parabola ideale della nuova società in crisi. Convivialità apparente, vulnerabilità sentimentale, socialità formale e individualismo protettivo, il “grande freddo” che si sviluppa nell’interessante lavoro della regista Karyn Kusama ruota intorno ad una perdita, ad un lutto devastante. Will insieme alla nuova compagna Kira, viene invitato dalla ex moglie Eden nella villa in cui vivevano insieme. Ritroverà i vecchi amici, anche loro convocati dalla donna, con il nuovo marito di lei, David, e due altri personaggi alquanto ambigui e misteriosi. Sembrerebbe una rimpatriata tra amici, tanto più che Eden e David erano scomparsi da due anni, per frequentare in Messico una comunità di recupero. Will non ha superato la scomparsa tragica del figlioletto che determinò la fine del rapporto con Eden che invece appare radiosa e in pace con se stessa. Le paranoie dell’uomo sconfineranno verso verità nascoste. Se trasformiamo le componenti simboliche del film, la ex casa matrimoniale che si trova sulle colline sopra Los Angeles rappresenta l’interiorizzazione del territorio, il ricorso protettivo all’autodifesa dall’esterno, la costruzione tradizionale di una comunità compiacente tesa a diluire dolore e sofferenza. Eden, David e due loro nuovi amici, i misteriosi Pruitt e Sadie sono apostolicamente dediti alla purificazione e al superamento della realtà oggettiva secondo gli insegnamenti del moderno sciamano che li ha condizionati in comunità. Will rappresenta non solo l’ insormontabile senso di colpa verso la morte del figlio, ma è dotato di un retro pensiero che lo responsabilizza nei confronti degli amici e che fa di lui un costruttore attivo di un mondo nuovo e diverso, dotato di una presa di coscienza forte. La scena iniziale del film che può apparire fuori contesto è invece esplicativa per la definizione dell’uomo, in balia di dubbi, frustrazioni e laceranti debolezze. L’ambiguo racconto di Pruitt durante un gioco di società invece metterà a nudo l’innata tendenza morale del cinema americano più tradizionale che riesce a pianificare il confronto tra il bene e il male come variabili di modalità del tutto identiche in nome del raggiungimento di un fine, Pruitt è il vero antagonista di Will. Con The invitation potremmo essere di fronte ad una tendenza più analitica di un cinema nuovo, che ha assorbito la possibilità del disastro e che cerca delle possibili vie d’uscita, non abusando della spettacolarità ma sfruttando con parsimonia i canoni di genere senza rifugiarsi in sterili contorsioni narrative dai tempi lunghi o cadere in abissi filosofici. Non siamo di fronte alla ricerca dell’impossibile redenzione degli antieroi anni 70, ma piuttosto orientati verso una ricerca di razionalità, di ancoraggio alla realtà delle cose. E non sarà proprio un caso che la regista americana ma di origini orientali, inserisca nel convivio di The invitation i rappresentanti di quel meltin pot che rappresenta il punto di partenza per sopravvivere.
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