Regia di Samuel Benchetrit vedi scheda film
Ogni condominio è una piccola, modesta, a volte anche irritante, decalcomania della vita. Con i suoi processi di progressivo ambientamento, la lotta per la sopravvivenza, i compromessi fatti con la difficilissima arte della convivenza. Quando un condominio registra tra i propri occupanti una così alta percentuale di esistenze brandite dalla malinconia della solitudine, il risultato è un piccolo film che (partendo da un romanzo autobiografico del regista e scrittore Samuel Benchetrit) procede per coordinate parallele, raffigurando, con encomiabili scene in sottrazione, i tentativi di svoltare, che durino pochi attimi, un giorno, o notti che non si vorrebbe avessero mai fine, di un gruppo di perdenti senza disperazione, di persone che hanno un tetto e che considerano questa eventualità tutt’altro che scontata un primo innegabile successo lungo la strada della normalità. L’intuizione de Il condominio dei cuori infranti è quella di non abbandonarsi a stucchevoli esercizi filosofici sulle azioni ed i loro perché, bensì di accontentarsi di procedere a brevi pennellate che vanno a comporre quadri (molto simili, per l’amaro e tragicomico surrealismo che li pervade, a quelli dell’ottimo Un piccione seduto su un ramo riflette sull’esistenza) che inscatolano anime e corpi, le une leggere e sognanti, gli altri tristemente ancorati, e con pesantezza, alla deriva di un mondo che sembra incapace di comprendere e di rinnovare (così tanto che gli elementi di possibile rigenerazione si manifestano in realtà quali forze di disturbo e, sembra dire il regista, è impossibile sapere se porteranno davvero ad un mutamento di pelle).
A partire da un episodio banale (un ascensore che si rompe e che deve essere sostituito) e che tuttavia scopre il vaso di Pandora degli umori malmostosi e delle piccole meschinità del condominio quale (mutatis mutandis) istituzione chiusa, il film procede ad elaborare un singolare gioco delle coppie. Un uomo e una donna, di differente età ed estrazione, ma di medesima ansia e stessa soffocata capacità di sognare, che si incontrano in luoghi e dimensioni interiori che, pur sembrando un altrove, sono il mero prolungamento di un naturale disagio esistenziale. L’uomo costretto sulla sedia a rotelle e l’infermiera che accompagna al guinzaglio della propria solitudine una semplice sigaretta; l’astronauta smarrito e la donna di origini algerine con figlio in gattabuia; l’attrice dimessa (e, come nel suo film in bianco e nero, senza braccia che le consentano di agguantare sogni) e il ragazzo abbandonato ad una vita tra quattro mura. Un rondò di pallide fughe e fragili figure, i tentativi melensi e patetici di scoprirsi ed inventarsi diversi da sé (l’uomo in sedia a rotelle che, dopo una distratta visione de I ponti di Madison County, si spaccia per fotografo brandendo una macchina per istantanee; l’attrice che tenta l’ultimo colpo d’ala di una carriera che sa finita; l’astronauta che, fiero della propria origine americana, spiattella alla donna che lo ospita i finali di Beautiful – portandola alla disperazione poiché, se si fa spoiler sui sogni e le illusioni, il risultato è l’implosione di intere stagioni della vita a venire - ), ed un finale sospeso che pare lasciare le cose come stanno, e che pure non lesina agnizioni e confessioni, brevi e soffocate risate sulla condizione umana e sulla magia che alcuni incontri, faticosamente, riescono a produrre.
Interessante il tentativo di contrappuntare queste vicende, così ordinarie, così profondamente normali, con il ricordato tocco di surrealtà che le rende leggeri e lievi pur nel sottotesto di ambigua tristezza. Così come encomiabili sono i riferimenti “metatestuali” a cinema e televisione (film, serie TV, l’astronauta che, nel suo viaggio folle e senza meta, pare uscito da un Kubrick in trasferta nel comico, l’uomo costretto a “rubare l’ascensore” che un po’ riporta alla mente certi normalissimi e sconfitti mostri di Marco Ferreri). Certo, non tutti gli episodi hanno granitica compattezza: laddove quello con Gustave Kervern e Valeria Bruni Tedeschi è perfetto nell’interazione tra registro comico e nostalgico (peraltro riecheggiando una sorta di mondo di Amelie al contrario e tutt’altro che favoloso) gli altri lasciano un po’ l’amaro in bocca per una strana sensazione di incompiutezza che, comunque, non inficia l’invenzione (e l’ intenzione) iniziale.
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