Regia di José Giovanni vedi scheda film
Quanto dobbiamo a Camus o a Marcel Duhamel per aver accolto (o permesso di accedere al cinema e alla letteratura) Joseph Damiani (vero nome di José Giovanni) ? (!). Bel coraggio, diranno in molti, a sdoganare un ex-collaborazionista, uno che commetteva crimini con l'uniforme nazista e poi con quella di Vichy! Bella fortuna ad esser scampato per un pelo alla ghigliottina, dopo la condanna a morte! Eppure, con questo curriculum "invidiabile", Giovanni si è imposto poco a poco come uno scrittore originale (la sua prosa, volutamente poco curata, è ricca di espressioni gergali malavitose e situazioni coscientemente scabrose e al limite della tollerabilità). Jacques Becker, affascinato, lo volle come sceneggiatore del suo film LE TROU tratto dall'omonimo romanzo giovanniano. E lì cominciò una carriera importante su un cammino graduale di redenzione che lo spinse, negli anni finali, a dedicarsi al tentativo di rieducare galeotti e assassini. Una carriera che ricorda un pò quella di Jean Genet e, per certi versi, quella di Céline. E' proprio vero che dai diamanti non nascono fior...Il film in esame è assolutamente notevole e ricco di spunti degni di approfondimento. Non va dimenticato che la detenzione e la promiscuità reali (fino al 1956) con i carcerati, danno ai suoi film uno spessore ed un'autenticità forse sconosciuti. Il commissario Leonetti, ottimamente interpretato da Lino Ventura), è un tipo tosto e che va per le spicce. La tipologia è quella del detective solo. In effetti, si oppone a quella familiare, bonaria e provinciale di Maigret. Ma Simenon non era stato in carcere e scriveva per diletto racconti morali...Giovanni scrive per lo più ciò che ha vissuto (vedi per esempio Asfalto che scotta, di Sautet). Leonetti è un poliziotto che per il suo coraggio ha ricevuto la Legion d'onore e che tiene nel cassetto. "Mi hanno silurato per gli stessi motivi per cui me l'hanno data" è una frase che da sola vale il film. Non ci sono ideali in cui credere. Si fa il proprio lavoro e basta. La sua parola non vale quella di un ricco avvocato influente, un personaggio che ha contribuito in maniera sostanziale a vedersi buttata nel cesso una carriera più che dignitosa. La solitudine è "une douce habitude" (come canta Moustaki) perchè Leonetti non può essere o stare che da solo. Non crede più, non ha più entusiasmo. Ma ha la scorza del vero poliziotto. Ne ha la costanza, la tenacia, l'instancabilità. "Ma di che cosa è fatto lei?" chiede la sua collega Marlène Jobert. Conosce il Male e sa che è dappertutto, anche nei suoi stessi uffici al commissariato. E quindi sceglie di star solo, perchè la solitudine non può accordarsi con i sentimenti, non può venire a patti con l'ipocrisia, o con il menefreghismo e servilismo della polizia. La solitudine è l'ultimo lusso permesso a chi abdica alla vita. La sua collega risveglia per qualche istante in lui alcuni flebili bagliori degli antichi fuochi. Ma davanti all'epilogo finale, scontato, avviene l'inevitabile. La Jobert ha ancora una vita da spendere, un entusiasmo da vivere, dei valori in cui credere. Leonetti no, non ha più niente. "Troppo tardi" dice sconsolato. La tipologia del poliziotto solo, smaliziato, cinico e ormai vecchio è un tema ricorrente nel cinema sia americano sia francese. ripreso da Olivier Marchal (L'ultima missione). Ma Marchal deve sicuramente tanto a Giovanni, così come lo stesso Melville (si aprirebbe qui un'interessante discussione). Quello che in certi polar (soprattutto americani) è un atteggiamento di maniera, in Giovanni senti il peso della vita che ti scorre addosso e ti lascia solo fango e ti accorgi che è vita vissuta, vera e maledetta. Un film che ti lascia l'amaro in bocca, si diceva una volta. Un film che ferisce e lascia le cose come sono, che è poi l'amara lezione della vita.
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