Regia di Derek Cianfrance vedi scheda film
Venezia 73 – concorso ufficiale
Ormai consacrato a nome autoriale da tenere d’occhio grazie a soli due titoli (Blue Valentine e Come un tuono), Derek Cianfrance si lancia nel melodramma ambientato nel passato, per la precisione subito dopo la fine della Grande Guerra.
Se in base alla sintesi della trama potrebbe sembrare la solita trita e ritrita storia d’amore, e comunque in (minima) parte lo è pure, in realtà sono altri gli aspetti che rendono questa pellicola stimolante, permettendogli di addentrarsi nella manifestazione dei comportamenti umani che mettono in crisi l’autocontrollo rendendo di conseguenza difficile, se non impossibile, fare la cosa giusta dato che questo porterebbe a una cascata di problematiche.
Finita la Grande Guerra, Tom Sherbourne (Michael Fassbender) decide di ritirarsi in un luogo solitario e l’incarico di guardiano del faro di Janus Rock è ciò che fa per lui.
E’ in questo luogo che vivrà la sua storia d’amore con Isabel (Alicia Vikander), un rapporto perfetto che verrà prima scalfito, e successivamente travolto, dalle difficoltà di avere un proprio figlio e dal caso che si metterà di mezzo.
Quello di Derek Cianfrance è uno dei casi a Venezia 73; sicuramente il suo era tra i titoli più attesi ma si è trasformato nel meno applaudito di tutti, sarà che il melodramma fa arricciare il naso, come se fosse la causa di un’intolleranza (è anche vero che questo essere prevenuti non giunge dal nulla).
In effetti, ciò che riguarda strettamente l’amore tra Tom e Isabel è tutto fuorché esaltante, ci sono lungaggini di troppo, soprattutto nella seconda parte che raccorda più periodi temporali, e rischia anche di essere stucchevole (ma qua è più colpa di un clima generale).
A parte i tanti simboli piazzati dappertutto - come il faro a fare da punto di riferimento in mezzo alla tempesta, la barchetta alla merce del fato o il sole al tramonto (di una vita) – che possono produrre le epifanie più profonde o il latte alle ginocchia, ciò che differenzia The light between oceans da altri melodrammi è che possiede altro da mettere sul piatto, deviando l’attenzione (sempre se nel frattempo non ci si ritrova narcotizzati).
Si tratta di urgenze impellenti ed egoismi che scaturiscono da moti interiori indomabili, che portano allo struggimento o finanche a uno stato di semi pazzia permanente che annulla la naturale percezione delle cose. Quando poi due necessità forti - come il senso di colpa e l’aspirazione di diventare madre (ricordandosi sempre che in quella società, non riuscire a fare un figlio per una donna era vista come una condanna divina) - condividono il medesimo spazio, non può che manifestarsi, prima o dopo, uno strazio che conduce a dilemmi morali da porsi (e che non si possono accantonare tanto facilmente).
Poi è anche vero che alla fine si arriva comunque pur sempre all’effetto fazzoletto, ma il tragitto non è affatto scontato e molte posizioni – la necessità di dire la verità, l’ammissione di aver perso ogni legame con la propria figlia appena ritrovata fisicamente e il vuoto da assenza – richiedono esplicitamente di calarsi in quei panni.
Per il resto, Michael Fassbender e Alicia Vikander hanno una chimica propria di chi si conosce alla perfezione, e non potrebbe essere altrimenti dato il legame che li unisce, mentre Rachel Weisz non è illuminata dall’ispirazione (più che altro, già non lo è il suo personaggio, un po’ trascurato).
Fatta la cernita di tutto, francamente, lo stuolo di stroncature, compatte come se fossero fuoriuscite da un plotone di esecuzione, sembra una punizione esagerata – anche se in laguna la critica internazionale è stata più equilibrata di quella nostrana – per un’opera che rimane comunque un crogiolo di vizi e virtù, tra cui bastano davvero impercettibili movimenti del proprio animo per spostare la bilancia del gradimento da una parte o dall’altra, ma (almeno) l’indifferenza aleggia altrove.
Rischioso, un po’ deludente e da rivalutare con un pensiero laterale.
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